Regia di Ruben Östlund vedi scheda film
Quest'opera prima pare più un'accozzaglia di macrosequenze tenute assieme da un filo quasi inesistente; eppure, alcuni momenti sono da ricordare.
In The guitar mongoloid già si intravede quello che diventerà lo stile caratteristico di Ruben Östlund: seppur in quest'opera appaia acerbo ed arcaico, è impossibile non riconoscerne l'ironia nell'alternarsi di long take a quadro fisso, alla ricerca di un naturalismo che spreme sia gli attori nelle improvvisazioni che il pubblico nella tenuta dell'attenzione. La totale assenza di trama lascia ampio spazio alle interpretazioni, anche se sembra affiorare senza dubbio l'interesse dell'autore svedese nello sperimentare, con occhio disinteressato, la possibilità di carpire un malessere sociale insito nella quotidianità della comunità, reale o immaginaria che sia. Ad un certo punto il film affronta la variazione della routine e come essa influisca sulle vite dei vari personaggi: dal chitarrista mongoloide del titolo costretto a cambiare sia il "posto di lavoro" che il rapporto col fratello, una volta che quest'ultimo svela la fidanzata, alla donna demente all'incessante ricerca della propria bicicletta.
Un film sperimentale che, col senno di poi, indirizzerà Östlund verso lavori sicuramente più riusciti come gli ultimi Forza maggiore e The Square. Quest'opera prima pare più un'accozzaglia di macrosequenze tenute assieme da un filo quasi inesistente; eppure, alcuni momenti sono da ricordare: tornando al mio precedente tentativo d'interpretazione, la scena della roulette russa inquadra tre uomini che il cambiamento rispetto alla routine lo cercano alla follia e l'autore svedese, con la stessa maestria che riproporrà solamente un anno dopo col corto Autobiographical Scene Number 6882, ibrida alla perfezione surrealismo e tensione. Suggestivo e gratuito il finale metafisico.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta