Regia di Farhad Safinia vedi scheda film
Un buon film che appaga lo spettatore a caccia di sensazioni forti e prestazioni attoriali d’impatto, ma soddisfa anche chi cerca di farsi strada sotto coperta cercando nei semi interrati quelli che daranno i frutti migliori.
“Disseminazione etica di valori alti”, definizione valida per questo biopic di libera confezione che i due protagonisti (Sean Penn e Mel Gibson) colmano degli stilemi per cui vanno famosi e su cui hanno costruito la loro fama, ma che qui si devono solo perdonare, tanto urge sottolineare il messaggio sotteso, che è ciò che veramente conta.
Simon Winchester (1944), l’autore del libro da cui è tratto il film, giornalista del Guardian, scrittore di viaggio e di molte altre cose, ci racconta una storia che, sfrondata dal romanzesco, tolti i toni accesi di momenti troppo a rischio mélo, resta una valida memoria e documenta tempi che sembrano più lontani di un solo secolo, tanto ci costringono a riflettere sugli strani processi evolutivi dell’umanità, le sue accelerazioni e le sue retrocessioni.
Inghilterra vittoriana, 1872.
La ricostruzione ambientale è perfetta, Oxford svetta con la sua gotica severità e magnificenza, prati verdi e sale grondanti libri e cultura, sussiegosi membri della Philological Society, orgogliosi di appartenere alla più antica Università del mondo (dopo Parma, Bologna e Padova, naturalmente) e un progetto ambizioso che stenta a decollare, fumose discussioni e pedanti distinguo trattengono ai blocchi di partenza.
Si tratta della creazione dell’English Oxford Dictionnary, monumento insuperato e oggi, per noi figli e nipoti di Google, digitalizzato con acronimo OED, che “definisce e illustra come è stata utilizzata una parola, da dove proviene, quando è entrata per la prima volta nella lingua e come il suo significato è cambiato nel tempo e nel mondo”.
Il tutto, naturalmente, riferito alla lingua inglese, ma, considerato quanto ormai sia diventata nell’ultimo secolo lingua comune e internazionale, possiamo pensare all’OED, concluso nel 1928, come patrimonio dell’umanità.
Bene, mentre i parrucconi della Philological Society di Londra si consumano impantanati in dotte discussioni, arriva Mr.James Murray (Gibson) uno scozzese molto barbuto e appesantito, un geniale outsider, un autodidatta che snocciola la conoscenza delle lingue più inaudite, autentico cultore della “parole” di desaussuriana memoria.
Murray non ha una laurea, si alzano varie sopracciglia (neanche Benedetto Croce l’aveva, ricordiamo noi), ma spesso (almeno nel Regno Unito pre-Brexit di fine ‘800) prevale il buon senso e gli affidano il monumentale incarico (naturalmente, negli anni, molti membri della Philological Society remeranno contro di lui, sostenuti dalla stampa sempre prona al potere anche allora, ma, possiamo dirlo senza timore di spoiler, al buon prof andò bene e morì nel 1915 a opera molto avanzata).
Va intanto avanti la storia parallela che aveva dato inizio al film, con uno Sean Penn molto agitato, ex ufficiale dalla mente sconvolta per le atrocità a cui ha assistito in guerra,che corre lungo strade notturne di una città americanache più dickensiana non si potrebbe e, in preda ai fantasmi della sua mente malata, spara al primo disgraziato padre di cinque o sei figli che sta tornando a casa, un lurido tugurio dei bassifondi di allora.
E’ W.C. Minor, ossessivo compulsivo (alla fine la diagnosi fu paranoia con deliri schizofrenici) rinchiuso in manicomio criminale in Inghilterra.
Minor è a sua volta un genio, maledetto ma genio.
Le strade dei due uomini s’incontreranno per una di quelle casualità che pure avvengono e dai posti più impensati (la cella di un manicomio), dalle storie più anonime (un prof con moglie e tanti figli sanza infamia e sanza lodo) nascerà un’opera immortale.
Così va a volte la vita, certo così andava nel diciannovesimo secolo, e mentre scorrono le immagini di un film che parla di cose belle e cose brutte, dolori e amori, amicizia e solidarietà, sistemi manicomiali molto pre-Basaglia e famigliole tranquille dove i figli amano (e rispettano) i padri, quello che resta di tanto rumore è la “parola”, domina e mater , punto d’incontro dei diversi, luce di un sistema relazionale che non ha confini, dove gli uomini sono uguali al di là di ogni colore, oltre ogni appartenenza.
Un buon film che appaga lo spettatore a caccia di sensazioni forti e prestazioni attoriali d’impatto, ma soddisfa anche chi cerca di farsi strada sotto coperta cercando nei semi interrati quelli che daranno i frutti migliori.
www.paoladigiuseppe.it
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