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Hagazussa: La strega

Regia di Lukas Feigelfeld vedi scheda film

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La recensione su Hagazussa: La strega

di undying
9 stelle

Opera prima di un regista austriaco che, fortunatamente, non guarda all'horror più fracassone degli ultimi anni. Hagazussa, pur generando una forte dose di inquietudine se visto nell'ottica paranormale, si pone come uno -tra i più belli- film drammatici sulla stregoneria.

 

locandina

Hagazussa: A Heathen's Curse (2017): locandina

 

In un'epoca imprecisata del Medioevo, presso una sperduta zona delle Alpi, la piccola Albrun (Celina Peter) è inerme testimone di un dramma inarrestabile: la peste si porta via -lentamente e con orrore- la mamma Martha (Claudia Martini), donna impopolare, per i vicini prevenuti, perché ritenuta una strega. Passano gli anni, Albrun è cresciuta (Aleksandra Cwen) e -pur dimostrando, a causa degli stenti, vent'anni in più- vive nella stessa capanna tra i boschi: le capre gli garantiscono la sopravvivenza, la legna il riparo dai gelidi inverni e la piccola Martha (figlia senza padre) è l'unico motivo che da senso alla sua esistenza. Nella completa solitudine viene avvicinata da Swinda (Tanja Petrovsky) la quale rivela, in seguito, seconde infime intenzioni. Il sacerdote del paese dona ad Albrun un semi teschio decorato, come monito -e simbolo- della  purificazione dal sacrilegio (un rito eseguito sui resti della defunta madre?). Il tradimento di Swinda, abbinato alla suggestiva reliquia, infierisce sul già provato sistema nervoso della sventurata ragazza, inducendola a perdersi totalmente tra i deliri indotti dall'avere ingerito un fungo allucinogeno.

 

scena

Hagazussa: A Heathen's Curse (2017): scena

 

"Mamma, vi prego. Dovete mangiare..." (La piccola e compassionevole Albrun, presso il letto di morte dell'appestata madre)

 

Quello è il tempo (il Medioevo), quello il luogo (un impraticabile area montana della Alpi): la sventurata piccola Albrun lì è nata. Tra montagne coperte da coltri di nubi, tra sentieri che si spingono -nel gelo, di notte- in mezzo al bosco. Con il sottofondo del Föhn, vento implacabile che soffia sulle Alpi e che fa da accompagnamento sonoro ai versi degli animali. Resti scheletrici di cervi, immersi nella terra accogliente, a monito del detto "cenere sei e cenere tornerai". Le campane che suonano a lutto mentre un monatto, con due cadaveri su un carretto, procede verso l'inevitabile rogo collettivo dei corpi, senza più vita, degli infetti. Il crepitio del fuoco nel camino, la preparazione del formaggio e una piccola neonata da accudire. Sola (si masturba accarezzando la capra che munge), abbandonata da tutti (i ragazzini le tirano i sassi chiamandola, appunto, hagazussa, ovvero strega), e probabilmente, anzi certo, abbandonata finanche da Dio (non si spiegherebbe diversamente quel finale, antropofago e così doloroso).

Il regista viennese Lukas Feigelfeld, al pari di Eggers e del suo affascinante The witch, si tiene lontano dall'insipido stile che predomina ultimamente negli horror -soprattutto americani- fracassoni e sfacciati, ricchi di effetti speciali realizzati per nascondere l'assenza dei contenuti. Guardando invece a suggestioni europee affronta il tema (dolorosissimo) dell'isolamento, spesso in simbiosi con gli elementi della Natura. Sfruttando con profonda sensibilità un contesto ambientale che -in talune circostanze- assume connotazioni quasi bibliche (i suggestivi inserts delle montagne, riprese in campo lungo con le punte coperte da nuvole e nebbia), Feigelfeld compone un dramma senza tempo (nel film non vengono dati riferimenti cronologici precisi), destinato a ripetersi ciclicamente al di là delle variazioni indotte da un progresso sociale che è solo apparente (significative le sintetiche frasi razziste, contro  gli ebrei messe in bocca a Swinda). Con dialoghi volutamente rarefatti, ne esce un film (quasi) muto, dove a parlare -oltre alla natura incontaminata- sono solo le suggestioni e le riflessioni che si espandono (come pensieri in trasfert verso lo spettatore) dalla condannata e (appunto) generata sotto cattiva stella, maledetta protagonista, interpretata dalla bravissima Aleksandra Cwen (la scena con "espansione dei bulbi oculari" causa effetto dell'allucinogeno è impressionante). Ecco allora che la suddivisione in quattro atti (Ombre, Corno, Sangue e Fuoco) si completa proprio nelle suggestive sequenze che chiudono (dando senso compiuto) i varii capitoli. Cronologicamente: l'ombra della Morte si avvicina alla piccola protagonista quando vede spirare l'agonizzante genitore; il tradimento (simboleggiato dal corno) dell'unica amica apre la via del delitto (sangue del suo sangue) che conduce alla purificazione finale, con il fuoco a divorare la capanna. Questo inaspettato (per quanto bello) Hagazussa non è però un film horror. Perlomeno non soltanto. E sbaglia chi intendesse prenderne visione con questa semplice aspettativa. A Feigelfeld interessa raccontare una tragedia, espressa mediante un uso simbolico del medium cinematografico, con il supporto dei rumori ambientali quasi onomatopeici (infatti il consiglio è di prenderne visione assolutamente in dolby 5.1) in sostituzione dei dialoghi. Una personale sciagura, una catastrofe circoscritta agli affetti più intimi, che prolifica nell'isolamento etico/sociale e -soprattutto- nella perdita. Perdita: non esiste termine migliore che possa dare senso al destino di Albrun, creatura infelice, per dirla con le parole del sacerdote, "il cui cammino è lastricato di dolore e sofferenza". Quest'anima in pena perde prima la madre, quindi la figlia ma -soprattutto- perde se stessa. E il valore aggiunto di un film, che riporta il piano umano, animale e naturale sullo schermo, è proprio nella duplice valenza da attribuire agli avvenimenti. Si tratta qui davvero di streghe o, forse, più probabilmente, di depressione? Perché come ben dice lo scienziato Mandel (Udo Kier) a Susy Banner (Jessica Harper) nell'altro capolavoro sulla stregoneria, Suspiria: "La sfortuna non è data dagli specchi incrinati, ma dai cervelli incrinati."

Un cielo -insolitamente- senza nubi si apre sul rogo finale mentre una musica sepolcrale scandisce  l'avvio dei titoli di coda, e si rimane con il dubbio. Il dubbio: unico vero finale possibile, che dà anche misura sull'ineguagliabile potenza di un'opera prima indimenticabile. Un film che si pone ai vertici del filone sulla stregoneria, trattata in maniera rigorosamente seria.

 

scena

Hagazussa: A Heathen's Curse (2017): scena

 

Il figlio di Albrun

Chi è il padre della piccola Martha? Se si decide di percorrere il percorso razionale della storia (e non quello demoniaco) una probabile risposta la possiamo trovare in uno dei rarissimi dialoghi presenti nel film:

Swinda: "È davvero un bel posto il nostro. Qui, sui monti. Non c'è nulla da avere paura."

Albrun: "Paura di cosa?"

Swinda: "Di quelli che non portano la luce di Dio nei loro cuori. Degli ebrei, e degli infedeli. Vengono nella notte e come delle bestie ti prendono. E pochi mesi dopo reggi in braccio un figlio come loro."

 

scena

Hagazussa: A Heathen's Curse (2017): scena

 

Il teschio

Di difficile significato l'elemento che -in background- si depone, e sedimenta, nella mente dello spettatore senza che questi -consapevolmente- ne colga le sfumature. Il teschio decorato, senza mandibola, che viene consegnato in dote ad Albrun potrebbe, forse, avere funzione opotropaica? Le parole pronunciate dall'uomo di Chiesa (in merito a sacrilegio e purificazione) rendono plausibile l'ipotesi che, quello specifico teschio, abbia una precisa identità. Identità  che è fortemente incisiva anche nello sviluppo (in chiave sovrannaturale) della storia. Sotto questa ottica, potrebbe benissimo essere quel che resta, delle mortali spoglie, della madre (sacrilega?) di Albrun. Un resto umano, dunque, trattato (le decorazioni floreali) con un particolare rito religioso.

 

Lukas Feigelfeld

Hagazussa: A Heathen's Curse (2017): Lukas Feigelfeld

 

Agazussa madichon

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