Regia di Robert Aldrich vedi scheda film
Una maschera stravolta e sconvolgente: una vecchia imbellettata, con le labbra impiastrate di rossetto, lunghi boccoli biondi e un vestitino di merletti, canta davanti allo specchio “My Heart Belongs to Daddy”. Forse è la scena più raccapricciante di un quasi horror che nel 1962 fece scalpore soprattutto per il casting e per la violenza psicologica di alcune scene. Le divine Joan Crawford e Bette Davis apparivano sullo schermo vecchie e imbruttite dalle frustrazioni dei loro personaggi e si coprivano di insulti come volentieri avrebbero fatto nella vita. Ma il film di Aldrich è molto di più: è un teorema in bianco e nero dei sogni inaciditi dalla vecchiaia, uno schiaffo a Hollywood e alle sue mitologie, un grafico atroce della cancrena sepolta in un’eterna faida familiare. Che non può non risolversi in un’eplosione di orrore e dolore e, infine, in un ultimo ballo addolcito dalla follia e dalla morte, sulla spiaggia bruciata dal sole, in una delle rarissime scene all’aria aperta del film. Claustrofobico, masochistico, magnifico.
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