Regia di Gennaro Nunziante vedi scheda film
Fabio Rovazzi è un giovane laureato in cerca inizialmente, e con entusiasmo, di un impiego coerente agli studi effettuati; poi, poco dopo, semplicemente un giovane in attesa di un impiego qualsiasi, anche precario, che lo distolga dalla disoccupazione più demotivante e demoralizzante.
Lo troviamo impegnato a districarsi – con una certa abilità – ad un colloquio che lo vede affrontare contemporaneamente, e tener testa con una certa disinvoltura, a tre intervistatori accaniti, apparendo motivato, sicuro di sé senza tuttavia risultare strafottente, anzi apparendo naturalmente disponibile al sacrificio.
Sacrificio che lo vedrà impegnato a consegnare volantini che nessuno degna più di uno sguardo prima, e poi - dopo aver soccorso e fatto naufragare l’impresa edile paterna a causa della sua disarmante onestà nel momento in cui il genitore (Ninni Bruschetta), scappato di casa con amante dell’Est Europa, rimane in coma dopo un incidente d’auto – impegnato in un “corso di formazione” a raccogliere verdura presso una amena località di campagna posta ai piedi di un paesello in pietra popolato ormai più solo da extracomunitari, allegri e anche entusiasti, nonostante tutto.
Sottopagato, in un contesto di lavoro in nero che lo vede coinvolto come anima sacrificale da un disonesto manager (Luca Zingaretti) che lo osserva da vicino non per premiarlo, ma per spremerlo ancora più di quanto già non succeda.
Con la sorellastra-bambina inizialmente petulante al seguito, un sentimento amoroso contrastato con la maestrina del paesello, e l’ottimismo di chi si illude che “i sogni sian sempre desideri”, il Rovazzi diventerà imprenditore saggio e profittevole del "bio" nei terreni ove il padre voleva costruire l’inceneritore. Campi che – naturalmente – si rivelano fertili ed ubertosi come nei passaggi biblici più altisonanti, in grado di competere con “la valle degli orti” delle più inverosimili pubblicità televisive.
Fabio Rovazzi, della scuola dei blogger scaltri e belli (ma senza essere bello, lui!) come la diabolica micidiale coppia "FF", rappresentata da Fedez+Ferragni, che possiede il dono di custodire la verità e farcene dono in cambio di qualche obolo per ostentare ricchezze e lussi da nuovi re mida dalla faccia di tolla, anzi proprio senza vergogna – ritiene di poterci dare la sua lezioncina di vita anche al cinema, dopo i devasti in campo musicale di fronte ai quali hanno abboccato come trote boccalone migliaia di utenti acritici d’età adolescenziale e non solo.
Il risultato è, cinematograficamente e moralmente, sconcertante, imbarazzante anche nei confronti dei poveri ed altrove bravi professionisti Bruschetta e Zingaretti; e zeppo di retorica, tracimante di buoni propositi da spot televisivo (per non parlare della pubblicità tutt'altro che occulta alla nostra casa automobilistica nazionalpopolare) che rendono il contesto già stucchevole del mulino bianco, al confronto una rappresentazione realistica (si noti il particolare stolto ed inverosimile di come vengono piantati i cavoli, direttamente dal fiore, entro solchi arati alla perfezione, su terreni che solo pochi giorni prima apparivano incolti e a dubbio di tossicità).
E poi basta con queste vocine off, questi "io narranti" da favoletta tutta buoni propositi, espediente ormai così abusato da risultare inascoltabile indipendentemente dal contenuto, e che davvero bisognerebbe evitare il più possibile, specialmente a molte produzioni di casa nostra, che troppo frequentemente ne diventano schiave e succubi.
Ma è perfettamente inutile andare a fare i pignoli. Con la regia piatta ed elementare di un Nunziante sempre più disarmante (la rima funziona), ci troviamo di fronte ad un nuovo emblematico caso che ci conferma, speriamo una volta per tutte, che, di questo passo, i destini della commedia italiana convergono dritti verso un baratro senza ritorno, un vortice difficile da risalire all’interno di un cesso ove i soliti furbastri predicatori sono anche coloro che si preoccupano di tirare l’acqua.
Come se non bastasse, in un paio di camei in cui ci troviamo di fronte niente di meno che Barbara D'Urso, nel ruolo trash o sconcertante di se stessa - in cui ns. signora della TV appare per la prima volta dopo anni senza essere modificata visivamente da potenti luci flou pretese in tv come la Adjani sul set e più di ogni altro escamotage per tendere all'immarcescibile e plastica perfezione - ecco che la donna, nel presentarsi più consona o realistica alla propria età anagrafica, ci appare quasi geneticamente modificata: una piccola, involontaria rivincita del cinema - fiction per definizione - sulla tv, che invece aspira cinicamente al vero, raccontando quasi sempre fandonie o mezze verità, edulcorate ad arte da fasulli e spesso beceri tranelli acchiappa consenso.
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