Regia di Joseph Losey vedi scheda film
È un film con parecchi difetti, primo tra tutti la non riuscita amalgama tra la serietà del tema e gli intermezzi cantati da un coretto di voci bianche. Non mi è sembrata azzeccata nemmeno l'idea di far recitare la parte del protagonista all'israeliano Topol: ben diversa la scelta di Cyril Cusack fatta qualche anno prima dalla Cavani. Per il resto, risalta bene il tema della pericolosità della scienza in tempi di oscurantismo, ma anche quello della viltà degli scienziati (almeno secondo Brecht, autore del testo teatrale dal quale è tratto il film).
Il Galileo di Losey, così come quello di Brecht, offre ancora oggi spunti di riflessione, anche se personalmente non condivido il giudizio di vigliaccheria dato sullo scienziato pisano (ed attraverso di lui su tutti gli intellettuali che chinano la testa di fronte al potere politico-religioso), poiché l'uomo di scienza è essenzialmente e prima di tutto (anche prima del genitivo d'appartenenza) un uomo e la paura - anche quella del dolore fisico, come dice apertamente Galileo - è elemento inscindibile dell'animo umano. E l'astuzia della Chiesa seicentesca fu quella di non arrivare ad usare i ferri (ma di farglieli vedere sì) contro uno degli scienziati più importanti, noti ed ammirati della sua epoca, ma di usare formule ambigue di condanna, di consentire mezze ritrattazioni, fino a far sorgere il dubbio se Galileo potesse essere considerato un relapso (e quindi passibile di condanna capitale), di intervenire sui parenti e sui protettori dello scienziato. Tanto da annullare quasi completamente la sua volontà di continuare gli studi astronomici, per dedicarsi a più innocue indagini sulla fisica (ma si sa che perfino dall'infinitamente piccolo si giunge inevitabilmente all'inifinitamente grande...). Quasi completamente, perché, come si vede nel finale, l'astuto pisano, vecchio e quasi cieco, ha copiato di nascosto i suoi appunti degli ultimi anni, confiscati (gli appunti, ma anche gli anni) dalla Santa Inquisizione.
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