Regia di Ernst Lubitsch vedi scheda film
Anche se il tempo lo ha reso meno conosciuto e celebrato, “Die Puppe” (ovvero “La bambola di carne” come fu titolato qui in Italia) rimane indiscutibilmente una delle punte di diamante del cinema di Lubitsch. Fra le pellicole da lui dirette nel periodo tedesco prima del suo forzato trasferimento in America a seguito dell’avvento del nazismo, lo possiamo infatti considerare forse non il suo risultato migliore, ma certamente quello più stimolante e malizioso.
La struttura del film è infatti leggera, brillante, fantasiosa, venata di un sottile moralismo e circonfusa da un alone di intrigante sensualità. E’ dunque doveroso includere la pellicola nel segmento più spensierato e divertente della sua produzione all’interno del quale si collocano più o meno tutti i film da lui realizzati in Germania (o almeno quelli racchiusi fra il celebre “Die Austernprinzesiin” [“ La principessa delle ostriche”] e il satirico “Sumurun”) che presentano una modalità di rappresentazione (il famoso “Lubitsch Touch”) già ben definito e che, sia pure con dei toni e delle tematiche espresse in maniera un po’più “raffinata” (come soleva affermare il regista stesso[1]) , si ritroveranno poi in maniera più compiuta, anche in alcune commedia da lui girate successivamente negli Stati Uniti d’America come “Trouble in Paradise” [“Marcia competente”] o “Angel” [“Angelo”].
Lubitsch riuscì infatti ad integrarsi perfettamente nella nuova realtà del cinema hollywoodiano e ad adattarsi senza troppi traumi alle ferree regole da questo imposte, cosa che gli permise di mantenere attiva tutta l’originalità e la freschezza del suo sguardo per l’intera durata della sua carriera. Fu dunque proprio questo nuovo paese così diverso da quello in cui era nato, cresciuto e formato, che lo aiutò ad uscire dal mondo tormentato e cupo della Germania di Weimar. L’aria nuova che si respirava in America gi dette infatti la possibilità di rigenerarsi e acquisire così nuovi stimoli ispirativi che gli permisero di portare a compimento una magnifica carriera piena di capolavori di successo che non invecchiano mai, e questo proprio in virtù dei differenti valori umani trovati in quella nuova terra, così dissimili da quelli riconosciuti come tali (e in qualche modo assorbiti anche da lui) dagli angosciati intellettuali tedeschi così provati dalla guerra e dalla situazione politica che avevano creato (inevitabilmente) sacche profonde di opprimente pessimismo[2].
Tornando a Die Puppe dopo questa necessaria ma utile premessa, non va ovviamente dimenticato che il film fu realizzato nel 1919 e quindi nel periodo più produttivo dell’espressionismo (uscì quasi in contemporanea con “Il gabinetto del Dottor Caligari” e solo pochissimi anni prima dell’avvento definitivo del Nazionalsocialismo che portò Hitler al potere: il clima già ammorbato che in quel periodo stringeva come una morsa tutta la Germania, non poteva che riflettersi anche sulla più spensierata produzione di un regista che solo pochi anni dopo fu costretto ad esiliarsi lontano dalla sua terra natia proprio per il suo dissenso col regime. Ci troviamo dunque di fronte a un film gioioso, impalpabilmente vaporoso, ma anche totalmente immerso nel contesto non solo politico, ma anche artistico e rappresentativo, tipico di quel periodo anche se questo potrebbe sembra a qualcuno un paradosso.
A scanso di equivoci (e per chiarire meglio ciò che intendo dire) preciso subito che Lubitsch non fu mai, nemmeno nel suo periodo tedesco compreso fra le due guerre, un regista tipicamente “espressionista” in senso lato ma qualche traccia comunque se ne ritrova (ed era forse inevitabile) soprattutto in quest’opera, sia pure declinata in maniera insolita, molto originale e in apparenza poco conforme con gli stilemi più classici di quella corrente. Lo ha sottolineato per esempio Roberto Salvadori[3] quando ha scritto che la collocazione di quest’opera nell’ambito più generale del cinema tedesco di quegli anni pur non essendo di fatto Lubitsch un regista “espressionista” secondo le tipizzazioni correnti individuate in quel periodo, è comunque un’opera fatta da un autore che con l’espressionismo ha fatto i conti molto da vicino già prima di approdare al cinema. Fu infatti proprio Max Reinhardt a dargli l’imprinting e ad iniziarlo prima alla recitazione e poi alla regia. Per comprenderlo. basterà verificare l’effettiva esistenza in questo film di precisi tratti distintivi codificati vuoi dal cinema, vuoi dal teatro espressionista.
Emblematico, nella verifica di tutto questo (come ci ha ricordato proprio il Del Ministro), il prologo del film in cui il regista in prima persona, sistema due pupazzi in una specie di casa da bambola da cui usciranno poi due attori in carne e ossa (il reale e la sua rappresentazione mediata).
Come era già accaduto in alcune pellicole antecedenti come l’ Homunculus di Rippert del 1916 o Der Student von Praga di Rye e Wegener, 1913 o nel quasi contemporaneo Der Golem, wie er in die Welt kam di Paul Wegener e Carl Boese, 1920) anche qui dunque l’umano si confonde con l’artificiale, con l’aggiunta però che qui la finzione si palesa sotto gli occhi dello spettatore, senza cercare di nascondere i propri trucchi. E infatti,i nonostante che il tono di questa fiaba sa piena di allegra bizzarria e di simulato candore, ci troviamo dentro anche evidenti sottintesi psicanalitici nella definizione dei caratteri oltre a una pungente vena anticlericale condita da trovate che sfiorano addirittura il surrealismo (vedi la scena in cui i due cavalli parlanti di una carrozza -che in realtà sono due attori mascherati - si accucciano come fanno i cani) che ci riportano subito dritti dritti dentro le atmosfere tipiche dell’espressionismo. A questo contribuiscono in buona parte anche (e non soltanto) le scenografie bidimensionali con il sole, la luna, gli alberi, i gatti e i galli disegnati e animati in maniera stilizzata, e soprattutto i temi del doppio e quello del rapporto tra creatore e creatura (qui siamo davvero in zona Caligari anche se il tono più ilare e giocoso fece a suo tempo erroneamente immaginare che si trattasse quasi di una parodia del genere da cui - si supponeva – il regista aveva voluto prendere le distanze). Ci sono comunque molte altre similitudini col film di Wiene che sconfessano platealmente questa ipotesi un po’ campata in aria e adesso del tutto improponibile (come ha ben sottolineato anche Michael Henry in un suo saggio uscito nel 1971) che dimostrano il contrario e confermano l’effettiva (anche se inusuale) appartenenza dell’opera anche a quella corrente estetica e di pensiero: in primo luogo il profilo tematico/figurativo e la forma del narrato (i mascherini usati per isolare i personaggi o alcuni particolari della scena, la presenza di una specie di “scienziato pazzo” assimilabile con una delle figure portanti proprio del Caligari che si colloca però forse ancora più vicino alle ambigue figure di tanta altra letteratura fantastica dell’epoca, da Hoffman a Villiers de L’Isle-Adam o ad altrettanti personaggi che popolano i film tedeschi del periodo (la sua camminata sui tetti delle case del paese in stato di sonnambulismo per esempio o addirittura quando i suoi lunghi capelli diventano improvvisamente bianchi - il momento è quello in cui si rende conto di aver venduto al protagonista della storia non la bambola, ma la figlia in carne ed ossa che ne aveva fatto provvisoriamente le veci - ma che poi alla fine, dopo l’happy ending, ritorneranno ad essere di nuovo neri). A tutto questo, si possono aggiungere poi anche le bocche avide e vocianti dei parenti del Barone che si accalcano come iene intorno al suo letto di morte per spartirsi l’eredità. Se a qualcuno non bastasse, per rendere ancor più solida questa tesi, ricordo anche che, se pur dai titoli di testa il film risulta essere stato ispirato da una operetta di A. E. Wilner, non va dimenticato che essa deriva direttamente proprio da quei racconti di Hoffman già citati prima, e quindi se proprio volessimo cercare l’ago nel pagliaio, al massimo si potrebbe dire che la pellicola è una specie di maliziosa burla utilizzata dal regista per far emergere la componente ludica e fiabesca di un espressionismo più bonario ma non meno graffiante, il che sarebbe un fatto ancora più interessante da esplorare non tanto per il pubblico quanto per gli studiosi (c’era forse qualcosa che circolava nell’aria che si stava suo malgrado concretizzando nell’inconscio di artisti diversi che stavano lavorando ad opere differenti ma comunque ugualmente impregnate dal clima soffocante e malsano del momento?). Davvero un bel quesito che per approfondirlo e dargli una risposta definitiva richiederebbe un’analisi comparata lunga e complessa che avrebbe poi bisogno di un fiume di parole per essere esplicitata fino in fondo.
La storia narrata mette al centro quella di un giovane (Lanzelot) eroe romantico e uomo morigerato fuori misura (lo potremo definire un introverso e velleitario sognatore inibito, misogino e frustrato) che invece di inseguire l’amore (si è votato alla verginità) per non essere indotto a tentazione cerca persino di sfuggire all’attrazione fisica verso il genere femminile e vive di conseguenza un’esistenza quasi monacale (divertentissima la scena di quando, inseguito da una folla di vergini che lo reclamano, con le gambe tremanti che quasi non lo reggono, si trova costretto a rifugiarsi dentro al monastero dei frati suoi amici).
Gli fa da controcanto lo zio, il ricco Barone di Canterelle, desideroso invece di ammogliare ad ogni costo questo suo renitente nipote per garantire così un futuro al suo casato.
Con il progredire del racconto, a queste due figure se ne aggiungeranno molte altre. Prima di tutte, quella del fabbricante di bambole Hilarius, un fobico sessuale autoritario, paternalista, sonnambulo, megalomane ed egocentrico dal quale, messo alle strette dalle pressioni che sta ricevendo dallo zio, Lanzelot (su consiglio dei frati) si è recato per acquistare un surrogato (una bambola-sposa da utilizzare come copertura di facciata) che gli permetta di far contento l’avo senza infrangere i suoi principi ed intascare così la ricca dote che gli ha destinato che il giovane intende però donare proprio ai frati del convento che gli hanno suggerito questa soluzione.
Hilarius ha un garzone di bottega un po’ frustrato dall’autoritarismo del padrone che ha fatto nascere in lui un grave complesso di inadattabilità alla vita sociale ed è di conseguenza costretto a vivere in silenzio l’innamoramento che prova per Ossi, la figlia del suo datore di lavoro, una giovane ragazza che, in parte per giocare, in parte per necessità si è sostituita alla bambola opzionata da Lanzelot (che ha un braccio rotto che deve essere riparato) e non perdere così l’affare. Quando il giovane, a causa di questo equivoco acquista e si porta via la ragazza che crede sia la bambola, il dramma esistenziale e sociale del garzone deflagra in tutta la sua drammaticità e il giovane, privato dei suoi sogni, finirà per suicidarsi.
Nel frattempo, Lanzelot si è sposato con Ossi che crede ancora essere una bambola meccanica. Riceve di conseguenza dallo zio che stava per morire di crepacuore, l’eredità promessa e si reca subito a consegnarla ai frati, sconvolgendo così i piani dei suoi parenti che avrebbero invece voluto dividere con lui la torta.
A questo punto, finzione e realtà si mescolano e finiranno per giocare a Lanzelot lo scherzo più impensato mai nemmeno immaginato della sua giovane esistenza: quello di trovarsi - suo malgrado - innamorato senza ancora rendersene conto, di una donna in carne ed ossa (nella fattispecie, di Ossi, bambola e femmina seducente che è riuscita ad “ammaliarlo” con le sue grazie… ritenute meccaniche che la aiutano a manifestare l’ equivoca, ambigua posizione di imprevisto oggetto del desiderio a cui non è indifferente nemmeno la riottosità repressa del giovane.
Sostanzialmente sicura di sé, la ragazza solo in apparenza pudica e riservata, dopo una iniziale titubanza, si conferma disponibilissima a lasciarsi trascinare in provocazioni anche sessuali con una sicurezza baldanzosa che finirà per far capitolare il giovane, costretto suo malgrado, a fare… buon viso a quella che credeva fosse una cattiva sorte (si fa per dire) ed è interessante vedere come si arriva a questo risultato.
In mezzo a tutto questo, ci sono anche le figure dei frati gaudenti del convento (veri deus ex machina della storia) a loro modo altrettanto repressi ma anche goduriosi e di dubbia moralità che, di solito dediti alla ricerca di elemosine da far finire poi nelle proprie tasche anziché in quelle dei poveri del circondario a cui dovrebbero essere destinate, si mostrano ben felici dal poter consumare (sia pure saltuariamente), rapporti intimi non istituzionalizzati, col sesso femminile….
Da qui, si procede poi velocemente e con una buona dose di perfida ironia, verso la conclusione (tutta al positivo) delle vicende qui narrate.
La raffinatezza del gioco degli equivoci e la perfetta direzione degli attori (sorprendente soprattutto la prova della protagonista) rendono dunque il film un graffiante fustigatore dei costumi dell’epoca dal sapore dolce/amaro e potrei anche chiudere qui il mio discorso perché (più o meno) credo di aver detto tutto ciò c’era da dire senza svelare troppo cose.
Prima di farlo voglio però soffermarmi un poco su una delle sequenze più importanti e riuscite dell’intera pellicola. Mi riferisco alla scena (girata magnificamente anche sotto il profilo della forma) in cui il giovane Lanzelot si trova solo nella cella del convento con Ossi - la bambola-donna - quando ancora non è a conoscenza della sua vera identità. Realizzata con una cinepresa molto mobile che passa continuamente da Lanzelot che sogna di essere baciato da una Ossi (che nella realtà lo sta facendo davvero) a scorci esterni che mostrano una natura rigogliosa di una specie di paradiso in terra in cui si trova immerso il giovane finalmente toccato (anche se ancora a sua insaputa) dalla piacevole bellezza dell’amore. Qui il regista riesce davvero a far sprizzare felicità da tutto ciò che circonda questo ancora casto sacro rito di maliziosa iniziazione che costituirà il preludio al definitivo abbandono di tutti i tabù sessuali del giovane ragazzo un po’ frustrato.
Attenzione però: gli alberi non sono quelli che un normale obiettivo fotografico impressionerebbe realisticamente sulla pellicola. Al contrario, sono architetture sbilenche su cui la luce forma un caleidoscopio scintillante e fantasmagorico che irrompe con sempre più forza nello squallore della cella monacale e lo trasforma in una luminosa e lieta realtà. Un eden fortemente stilizzato dentro a cui Lanzelot passa dal sogno alla realtà e abbraccia la sua Ossi con tutto il trasporto di una dirompente passione: un altro aspetto importante e tutt’altro che secondario che lega davvero indissolubilmente il film anche all’espressionismo (luci comprese)[4].
[1] Personalmente, non so se si può parlare proprio di “raffinamento stilistico”, ma è certo che qualche variazione rispetto al passato, la si riscontra davvero nei lavori del suo periodo americano , anche perché nella sua nuova esperienza statunitense andranno lentamente sparendo (ed era inevitabile che accadesse) alcuni modelli tipici della cultura tedesca fin de siècle, e questo non poteva che modificare le analisi accurate – sempre prioritarie nelle sue pellicole – dei sentimenti e degli affetti strettamente connesse con la tragicommedia della vita stessa. Non c’è una “frattura” totale ovviamente ma sono cambiamenti di prospettiva che permetteranno al regista di acquisire valori diversi più in sintonia con i modelli comunicativi di marca prettamente hollywoodiana, conditi da un po’ di divismo che in parte gioverà anche ai suoi risultati artistici. Un sottile lavoro di adattamento che necessiteranno obbligatoriamente anche di un radicale adattamento ai nuovi e differenti parametri culturali di riferimento che è stato più o meno il pegno da pagare anche da tutti gli altri registi costretti dagli avvenimenti storici a trapiantarsi negli Stati Uniti e a fare i conti con i dictat dei nuovi committenti americani.
[2] Si è parlato spesso dell’ideologia della distruzione che gli artisti espressionisti avevano innalzato a livello di “verità”. Un credo poetico venato di pessimo che per concretizzarsi non aveva bisogno di un intreccio narrativo complesso ma di efficacissimi primi piani, in cui il personaggio-attore veniva sottoposto alla dissezione della macchina da presa: questa dissezione operata nel vivo dello spirito e spesso nella profondità del subconscio (presente anche in Die Puppe) si esplicitava attraverso varie espressioni (angoscia, apprensione, non curanza, odio, terrore, solitudine) che il regista di turno si sforzava di trasmettere allo spettatore, spesso servendosi solo degli occhi (lo sguardo) o del gesto di una mano dei suoi interpreti.
[3] Gli fa eco lo storico del cinema Maurizio Del Ministro che ha scritto: “Nella sua Storia della letteratura tedesca, il Mittner, fra i non molti studiosi di letteratura attenti ai problemi dei film, ricorda che nel periodo espressionista “si afferma la più dinamica delle armi, ultima in ordine di nascita, il cinema: è soltanto dopo il 1914 che si cominciò a parlare di cinema d’arte con quello espressionista a fare la sua parte e a rendere palese la cosa.. A conti fatti, l’espressionismo tedesco si diffuse nel mondo, in primo luogo con cinque o sei film dell’incubo, di travolgente originalità, così stupefacenti da imporre anche al teatro ed al romanzo, i propri scenari e procedimenti tecnici, il proprio stile di recitazione mimica, il proprio ritmo narrativo, conquistando di colpo quella supremazia che non si perderà nemmeno negli anni successivi. (…) Al di là dei complessi e particolari rapporti fra letteratura espressionista e i film di quella corrente, se si vuole ora tracciare un nuovo quadro del cinema tedesco, più completo rispetto a quello offerto dalle opere del Kracauer e della Lotte Eisner, è necessario rivedere prima di tutto la distinzione in genere fatta fra film “espressionisti” e “non espressionisti” mai così netta sia pure tenendo conto delle diverse poetiche, che investono fittamente e un poco diversificano, il paesaggio cinematografico germanico complessivo realizzato fra le due guerre. (…) Un’esigenza di chiarificazione di un periodo così complesso avvertita anche da Paolo Chiarini che nel suo lavoro “Caos e Geometria” riconosce giustamente “la presenza di un clima comune, una specie di Koiné ideologica la quale, per quanto contraddittoria e apparentemente disorganica, è invece riconducibile a un denominatore comune che ha le sue radici in un atteggiamento mentale unitario (…) Siamo insomma di fronte non a un movimento o a una scuola con un programma preciso ed organico e una poetica coerentemente e univocamente articolata. Una specifica corrente che, slegata dalle ricche fonti della cultura tedesca alla svolta del secolo (Impressionismo, Simbolismo, Neo-romanticismo), riuscì a poco a poco a mutare la direzione del proprio cammino alimentandosi per via di sempre nuovi affluenti”. (…) La visione delle prime commedie di Lubitsch per esempio, potrebbe farci sembrare lecito considerare la sua attività come una diretta discendenza dal regista svedese Mauritz Stiller (ritenuto il padre della commedia) che lo collocherebbe da tutt’altra parte, ma non è proprio del tutto vero poiché esse (pensiamo per esempio a Die Austernprinzessin) presentano invece già labili tracce di riferimenti interni alla corrente espressionsta che prenderà una forma sempre più decisa e forte che rivoluzionerà davvero il modo di fare cinema in Germania (…). Potremo infatti osservare che già nelle sue prime opere giovanili Lubitsch smussava l’asprezza salace dei contenuti e delle situazioni , confinandole in un’aura vivida e fantasiosa in cui ancora una volta il ritmo dinamico della narrazione, del movimento delle comparse, creava – come acutamente ricorda e sottolinea Delluc – “un’atmosfera quasi angosciosa” in cui “intere folle si muovevano coi movimenti monotoni e militareschi di un’obbediente guarnigione”.(…) Ma è proprio con DIE PUPPE che il regista farà davvero un passo più diretto e certo verso l’espressionismo, e in particolare verso le opere dalle quali questa corrente è nata e si è sviluppata (l’ Homunculus di Rippert del 1916 o Der Student von Praga di Rye e Wegener, 1913) creando le premesse per un percorso successivo davvero già tracciato considerando il periodo di forte repressione che caratterizzò quegli anni. Tutto questo però il regista lo utilizzerà volgendolo al comico e grottesco. In DIE PUPPE infatti del gusto per l’orrido e per l’uomo artificiale di quelle opere originarie, se ne ritrova solo un’eco un po’ smussato contaminato dalla narrativa di Hoffmann che prende il sopravvento. Infatti il sinistro fabbricatore di bambole animate diventa qui il buffonesco Hilarius. Lubitsch insomma la cui tendenza alla fiaba si presentava già nei personaggi marionettistici di Die Austernprinzessin, non esita ad iniziare il film con un significativo teatrino di pupazzi ove lo stesso regista costruisce quinte, fondali, inscenando il film come fosse teatro nel teatro, procedimento tipico – osserva ancora il Mittner -“ dei vari processi di sdoppiamento cari al teatro espressionista in cui l’attore, il regista o l’autore stesso, spesso commentano non solo il dramma, ma addirittura il personaggio e l’azione da loro stessi creati. Lì, ancora una volta il tema è relegato all’intrecciato rapporto tra i dure sessi, fra il verginale Lanzelot, chiuso nella sua sfera ossessivamente clericale – di cui il regista traccia un quadro con un gusto farsesco non ancora raffinato, ma certo ricco di parodistica vitalità –e la figlia di Hilarius che si finge prima bambola, poi si rivela donna risvegliando nell’uomo la repressa sensualità. La componente espressionista diventa dunque estremamente funzionale soprattutto nei movimenti di Ossi emulante la bambola, e questo al di là di tutte le altre “tracce” di cui il film è pieno. [4] Sappiamo ormai molto bene come l’espressionismo (e in particolare quello cinematografico) avesse teorizzato la natura quale elemento importante per definire meglio anche visivamente non solo le vicende narrate, ma (sia pure in maniera un po’ più soggettiva) anche la psicologia e lo stato d’animo dei suoi protagonisti. L’esempio più calzante ce lo fornisce ancora una volta proprio il Caligari: lì la natura-paesaggio con le sue linee sghembe e le sue prospettive anomale, riflette costantemente lo stato schizofrenico-demoniaco del protagonista. Una similitudine importante che avvicina ancora una volta le due opere grazie alla maniera con cui Lubitsch ha realizzato questa lunga scena che ho citato in conclusione del mio scritto.
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