Regia di Nelo Risi vedi scheda film
Non è semplice parlare di un film come questo di Nelo Risi (Milano, 1920), meno famoso fratello di Dino, a quasi quarant'anni di distanza, ponendolo ormai fuori dal contesto in cui fu realizzato. All'epoca fu un film importante e perfino innovativo, in cui la scelta stilistica di una messinscena spoglia e quasi incolore faceva da contrappunto alla serietà della materia trattata, sulla quale si appunta pressoché per intero l'interesse degli autori (oltre al regista collaborarono alla sceneggiatura, tratta da un libro della terapeuta Marguerite-Andrée Sechehaye, Fabio Carpi e lo psicoanalista Franco Fornari). Un film di puro contenuto, dunque, nel quale, però il rigore stilistico e l'asciuttezza nel raccontare i fatti narrati non riscattano del tutto la scarsa efficacia spettacolare dell'intera pellicola, rischiando di offrire una rappresentazione altrettanto sbiadita quanto i colori della clinica svizzera in cui viene ricoverata la protagonista. A parte il fatto che secondo me il titolo, più che "Diario di una schizofrenica", avrebbe dovuto essere "Diario su una schizofrenica" oppure "Diario di una psicoterapeuta", con tutto il rispetto per il coraggio culturale dimostrato dal regista e per la bravura delle due ottime interpreti principali, la francese D'Orsay e la spagnola Lozano (già vista con Buñuel e successivamente con i Taviani e con Moretti), su argomento analogo consiglierei di vedere "Family Life" (1971), uno dei primi film di Ken Loach.
La diciassettenne Anna, di buona famiglia borghese, schizofrenica conclamata almeno dall'età di dodici anni, viene ricoverata dai genitori - padre lontano e distratto dagli impegni di lavoro, madre disamorata e attenta soprattutto alla figlia più piccola - in una clinica svizzera, dove una terapeuta di buon senso, basandosi più sull'amore che sui libri di medicina, riuscirà a dare alla ragazza autonomia e a porla sulla strada che può condurre alla guarigione.
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