Regia di David Gordon Green vedi scheda film
Che belli gli anni in cui Laurie Strode si faceva chiamare Keri Tate e aveva per figlio Josh Hartnett e per madre Janet Leigh – per altro sua vera madre.
A 40 anni esatti dal capolavoro di John Carpenter arriva la versione di David Gordon Green, regista di cult demenziali (Pineapple Express, 2008, Your Highness, 2011, Lo spaventapassere, 2011), indie applauditi in vari festival (Prince Avalanche, 2013, Joe, 2013, Manglehorn, 2014) e anche di un buon thriller (Undertow, 2004), e dall’attore, qui sceneggiatore, Danny McBride, anche lui confratello del “pack” demenziale di James Franco e Seth Rogen, di cui Apatow e Gordon Green sono due pilastri. Nonostante fosse stuzzicante l’idea di affidare a un profano dell’horror la reinvenzione di una saga e forse di un intero genere, lo slasher, questo capitolo (Halloween, 2018), pur avendo John Carpenter come produttore esecutivo – e si dice abbia pilotato il regista durante le riprese imprimendo il suo sigillo su tutta l’operazione – non solo fa ingiustamente tabula rasa di tutti gli episodi precedenti, ma costruisce sia da un punto di vista formale, puramente tecnico, sia da un punto di vista immaginifico, un horror mediocre.
Innanzitutto ripartire solo dal primo episodio era ed è fuori luogo. Il buon senso vince sempre sulla radicalità delle idee estremiste. La linea pura della saga – Halloween, 1978; Halloween II, 1981; Halloween: H20: Twenty Years Later, 1998; Halloween: Resurrection, 2002 – epurata dalla linea spuria – Halloween 4: The Return of Michael Myers, 1988; Halloween 5: The Revenge of Michael Myers, 1989; Halloween 6: The Curse of Michael Myers, 1995 – e dagli inutili reboot di Rob Zombie – Halloween, 2007; Halloween II, 2009 – poteva restare come base di avvio di un seguito più autoriale in linea sia con i tempi e l’attualità, sia con l’originale. Tradizione e innovazione avrebbero trovato nella continuità narrativa più idee e più sbocchi interessanti. Invece, prendere un’attempata benché combattiva e atletica Laurie Strode, e metterla a difesa di una casa appartata in un bosco, edificata come un bunker con tanto di panic room, ossessionata dal ritorno di Michael Myers dopo fatti risalenti a 40 anni prima, con l’aggravante di non essere più la sorella del “mostro”, ma solo la sua vecchia vittima sopravvissuta, è un azzardo debolissimo fin sulla carta, figuriamoci tradotto in immagini. Se si fosse ripartiti da Halloween: Resurrection, nonostante i vincoli narrativi a cui si sarebbe dovuto mettere mano – Laurie veniva uccisa da Michael – si sarebbe potuto comunque proseguire una storia con un background e una iconicità ben precisi. Il risultato, benché buona parte della critica che conta lo applauda, è di molto inferiore alle aspettative – forse troppo alte per i puristi della saga come il sottoscritto – oltre che ad essere, formalmente, un film mediocre.
CinemaBlend.com parla di «qualcosa di onestamente straordinario». Álex Manzano di Espinof.com sentenzia che Halloween è la «stupenda reinvenzione di un mito». Per Empire Magazine è «piacevolmente terrificante» e per Gamespot.com «il coronamento perfetto al capolavoro di John Carpenter». Peter Travers di RollingStones.com lo loda e lo esalta sia da un punto di vista tecnico che narrativo. Per Giona A. Nazzaro di FilmTv, addirittura, il film riconquista «il sapore da fine Seventies. […]In questo Halloween rivive un’idea di cinema americano analogico che inevitabilmente commuove. Una questione di spazi e di piani. Di montaggio e di tempi. Un artigianato ormai minoritario restituito alla sua dignità di lingua perduta» (FilmTv n. 43/2018). Viene giustamente da chiedersi che film abbiano visto, anche perché molti che applaudono Halloween di Gordon Green ne sottolineano comunque i limiti e le criticità, come Marco Paiano di Cinematographe.it che parla di «prodotto puramente derivativo, privo di qualsiasi spunto originale,[…] regia poco autorevole di David Gordon Green», ma lo considera «un dignitoso seguito dell’originale».
Io, purtroppo, devo cantare fuori dal coro, ma sono anche in buona compagnia. Scott Mendelson su Forbes.com dice che una sceneggiatura maldestra e una mancanza di logica del mondo reale «rendono questo film non tanto un aggiornamento quanto più una gloriosa fanfiction». A. A. Dowd di AVClub.com titola che il lavoro di Gordon Green «è solo un’altra pallida imitazione dell’originale, inferiore anche a Halloween H20 (concordo, ndr)». Gabriele Niola di Wired.it centra perfettamente i difetti del film, li stessi che individuo e analizzo qui di seguito, e titola appunto che «L’ultimo Halloween è un dolcetto insapore (e senza scherzetto)». Aarón Rodríguez Serrano di El antepenúltimo mohicano, rivista di cinema online dove si riuniscono i migliori critici spagnoli – e tra i migliori d’Europa – si fa molte domande nella sua analisi per concludere che «la trama non apporta nulla di spaventoso. […] Tutto il film è terribilmente mal costruito. Dall’aspetto narrativo a quello formale».
Bisogna fare un salto indietro di 40 anni per arrivare a comprendere gli errori di questo sequel. All’epoca del primo Halloween, lo slasher era in via di definizione. Un terreno ancora in buona parte inesplorato nonostante i primi tentativi di strutturazione di Hershell Gordon Lewis, Mario Bava e il Tobe Hooper di The Texas Chain Saw Massacre (1974) con cui lo slasher americano ha la sua prima codificazione e le sue prime basilari coordinate narrative e iconografiche. A quell’epoca Carpenter poteva ancora giocare sulla sorpresa, l’innovazione, la sperimentazione e il jumpscare inaspettato, disattendendo di fatto le aspettative del pubblico di allora. Oggi, in quella che possiamo definire la versione millenial del mito carpenteriano, l’horror ha virato drasticamente verso la pulizia visiva e la sterilizzazione dell’impianto politico e perturbante per mere questioni di mercato o anche, è ora di rilevarlo, per pura incompetenza di produttori e registi di oggi, troppo assuefatti all’estetica videoludica e troppo condiscendenti verso i gusti estetici e formali del pubblico più giovane: videogiochi, social, reality, talent show, YouTube, etc. Produzioni e regie quindi, alla cui base c’è ovviamente un’incapacità immaginifica che depotenzia l’atto creativo mitopoietico. Una povertà dovuta alla saturazione, frammentazione e riproduzione senz’anima delle immagini dell’era digitale e social che causa un’inquietante indifferenza verso la figurazione mitica e di conseguenza l’impossibilità di rappresentazione dell’universo emozionale dell’uomo moderno, dei suoi simboli e delle sue tensioni.
Oltre a negare l’esistenza di ben 6 sequel tra linea pura e spuria, Halloween 2018 si macchia di un gravissimo errore: riporta Michael Myers ad una percezione di massimo realismo e ne cancella ogni sfumatura ambigua e metafisica, riduce una figura di altissima potenza simbolica a un carattere ordinario e inoltre annulla tutto il misticismo di cui si ammantava il capitolo originale e buona parte dei sequel. Infatti, gli elementi figurativi di fascino del capolavoro carpenteriano, ovvero l’invenzione di un mondo narrativo, quello oscuro di una cittadina di provincia durante la notte di Halloween con zucche illuminate e maschere mostruose a popolare le strade deserte e anonime, l’incursione del terrore, la minaccia incombente, la tensione per la sopravvivenza, l’incubo dello straniamento, la paura del non conosciuto, la concrezione di una paura ancestrale, in Gordon Green diventano asettici orpelli senza potenza evocativa. Nonostante l’ambientazione per lo più notturna, le “ombre”, intese come evocazioni spettrali dell’inconscio o angoli bui dell’animo umano, sono praticamente assenti. Inoltre, l’esasperata visibilità di Michael Myers fin dall’incipit ne depotenzia il carico evocativo e soprattutto metafisico che ne aveva fatto la fortuna durante quarant’anni di sequel e rilanci. Michael è regolarmente inquadrato come un normalissimo personaggio, mostrato in modo ordinario senza più nessuna aura misticheggiante. Michael non esce più dal buio, bensì appare alla luce abbacinante di un piazzale nell’ora più chiara del giorno. Questa poetica realistica, diametralmente opposta a quella fantastica dell’horror puro, sottrae al film ogni possibilità di successo.
Il Michael Myers di questo nuovo capitolo, stando a questa precisa scelta registica e di sceneggiatura, è il punto di arrivo dell’umanizzazione e razionalizzazione del personaggio iniziate già durante la linea spuria della saga e drasticamente teorizzate nel dittico di Rob Zombie. Tant’è che, paradossalmente, il nuovo Halloween di Gordon Green, benedetto da John Carpenter (?), è molto più erede dei reboot di Zombie che dell’originale di Carpenter stesso.
Inoltre, tecnicamente, David Gordon Green è colpevole di una serie di gravi errori formali che riducono ulteriormente l’incisività, anche fosse solo estetica, del film. Il prologo e i titoli di testa sono manifesti di una sciatteria registica lunga tutto l’arco del film e che tocca il fondo proprio nel montaggio tanto lodato da Nazzaro e altri. Quando all’ospedale psichiatrico, lo Smith’s Grove, il podcaster che mostra la maschera a Michael tuona la sua ultima battuta, partono immediatamente i titoli di testa sul tema classico di John Carpenter, con lo stesso lettering dell’originale e con un’animazione che ricorda sempre il primo capitolo, ma che sa più di parodia: una zucca intagliata che si gonfia come uno scivolo gonfiabile. A seguire, il film è un’accozzaglia di tempi e stacchi completamente sbagliati. Tempi espositivi mal calcolati, raccordi illeggibili, nessi causali demotivati – ovvero senza motivi narrativi a collegarli. Se salviamo la sequenza del ragazzino che imbraccia il fucile per aggirarsi sul luogo dell’incidente che ha liberato Michael, non ci sono né altre sequenze, né scene, né immagini ugualmente riuscite.
La fabula è intrecciata in modo molto maldestro, con stacchi repentini e rifocalizzazioni che disorientano la visibilità della storia. Non c’è nessuno sperimentalismo alla base di certe scelte, è solo cattiva regia. Forse il tutto è dovuto a una sceneggiatura bislacca, con molti buchi e con personaggi che sembrano essere importanti nella definizione della trama, come il giovane Cameron vestito da Faye Dunaway o il rude e scettico sceriffo di colore che ad un certo punto del film spariscono e non si sa bene dove siano finiti; oppure personaggi tratteggiati superficialmente, come la figlia e la nipote di Laurie Strode, mentre il personaggio del dottor Sartain è quasi ridicolo nella sua supposta sostituzione del dottor Loomis. Si salva soltanto lo sceriffo Hawkins interpretato da Will Patton, profondo, titanico, con un’ombra di fatalismo alleggiargli intorno e che lo sa rendere il carattere più interessante del film insieme ovviamente a Jamie Lee Curtis e alla sua epocale variazione sul personaggio di Laurie Strode. Lei è la vera mattatrice della pellicola, a cui però, nella sovversione del ruolo da preda a predatrice, viene tolto il fascino dell’originale – oltre che essere alla base di tutti i difetti del film già in fase di scrittura.
Una sceneggiatura, tra l’altro, in cui stridono intere sequenze inutili e girate con noia, con una svogliatezza così evidente che sembra impossibile che molti critici e molte testate non se ne siano resi conto, come per esempio i primi delitti di Michael durante la notte di Halloween prima di individuare Laurie Strode. Arrabattati e inutili nell’economia del film come nella definizione del personaggio, che appunto non ha bisogno di ulteriori tratteggi e ridefinizioni. Anche la “sequenza dell’armadio”, dove vittime sono la babysitter bionda e il suo ragazzo, letta da molti come uno dei momenti migliori del film, è in realtà molto telefonata e castrata, senza inventiva, piatta e priva di atmosfera, come tutto il film.
È anche vero che questo Halloween 2018 arriva dopo l’era del torture-porn con i suoi eccessi e le sue esasperazioni pornografiche e nel bel mezzo di una ricodificazione satirica dello slasher operata proprio dalla Blumhouse con titoli come Get Out (Jordan Peele, 2017) e Happy Death Day (Jordan B. Landon, 2017), oppure dalle serie tv come Screem Queens (Murphy, Falchuk, Brennan, 2015-2016) e Scream: The Tv Series (Blotevogel, Dworkin, Beattie, 2015-in corso), ma arriva anche nel momento in cui l’horror s’è fatto politico come nei Settanta, basta citare la saga di The Purge ideata da James De Monaco (2013, 2014, 2016, 2018), lo stesso Get Out, l’italianissimo Go Home – A casa loro (Luna Gualano, 2018) o le serie zombesche come The Walking Dead (Kirkman, Darabont, 2010-in corso) e Fear the Walking Dead (Kirkman, Erikson, 2015-in corso).
È legittimo quindi aspettarsi molto di più dal capitolo sbandierato come il più attuale della serie. Magari un Michael Myers più metafisico che appare nel buio con tuta e maschera senza che ci venga spiegato alcunché; magari una Laurie Strode, sua sorella, che vive nell’incubo del ritorno dell’uomo nero, ma che conduce una vita normale ad Haddonfield; magari suspense, atmosfera, poesia dell’immagine, iconografia evocativa, e se proprio vogliamo attualizzare la saga aggiungiamoci nudi più audaci, sesso e una mattanza truculenta per una serie pressoché infinita di sottotesti. Allo stato attuale del film, invece, le soluzioni narrative sono soltanto repliche senz’anima di forme e narrazioni del terrore oggi inflazionate.
Insomma, questo Halloween 2018 non fa paura, non crea tensione, non vive di quella magica atmosfera stregonesca senza precise coordinate spazio-temporali con cui il racconto del terrore sa interferire con il nostro senso critico e percettivo del reale. Non sporca l’immagine come sarebbe concesso a un horror dei giorni nostri. Non racconta nessuno spaccato sociale dell’America coeva, a parte nel tratteggio della protagonista che è una donna armata fino ai denti in epoca trumpiana. Non affonda lo sguardo in nessun interstizio psicologico o in nessuna crepa della morale imperante. Nessuno spunto sociologico né psicologico né politico né culturale.
Viene da pensare che questo episodio, che non vuole essere un reboot, ma il vero e unico sequel dell’originale – il che già è una pretesa arrogante e senza fondamento – sia stato ideato, scritto e diretto frettolosamente, confezionato alla bell’e meglio, arrampicandosi sui vetri, solo per approfittare del quarantesimo anniversario della pellicola culto di Carpenter utilizzando per l’occasione i nuovi potenti mezzi di comunicazione social con cui pubblicizzare l’evento e ottenere così un successo di botteghino. Halloween 2018 perde quindi il confronto con l’originale, ovviamente, ma anche con il secondo, quarto e quinto capitolo che, oltre ad un Michael Myers metafisico e orchesco, impreziosivano la narrazione con motivi squisitamente goticheggianti, e la visione con un’estetica espressionista e oscura, perfetta per un racconto nero di taglio fantastico in accezione todoroviana. Elementi estetici e narrativi che per quarant’anni hanno definito una mitologia con umiltà e incanto, e che purtroppo latitano in questo non dichiarato, ma in realtà ennesimo reboot della saga.
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