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Halloween

Regia di David Gordon Green vedi scheda film

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La recensione su Halloween

di 79DetectiveNoir
5 stelle

Non vuole essere e imitare il capolavoro originario ma io appoggio Gordon Green e non lo accoltello, cari critici maniaci.

locandina

Halloween (2018): locandina

locandina

Halloween (2018): locandina

scena

Halloween (2018): scena

David Gordon Green

Halloween (2018): David Gordon Green

Jamie Lee Curtis, Judy Greer

Halloween (2018): Jamie Lee Curtis, Judy Greer

scena

Halloween (2018): scena

Haluk Bilginer

Halloween (2018): Haluk Bilginer

Jamie Lee Curtis

Halloween (2018): Jamie Lee Curtis

David Gordon Green

Halloween (2018): David Gordon Green

 

Ebbene, disincagliato da vincoli editoriali allineati a canoni standard, non schiavo di questioni SEO forse limitanti la recensoria, letteraria creatività più libera e sanamente smidollata, no, soltanto smodata, ivi son libero di sguinzagliare il fervore armonico della mia disinibita prosa infuocata, accoltellando, no, riacciuffando, ovvero, dalle memorie ripescando, anzi, sinceramente per la prima volta il sottoscritto vedendo questo film rimastomi dapprima, diciamo, ignoto, e nelle seguenti righe, naturalmente, recensendolo, ve ne parlerò nei tagli da slaher movie, no, solamente nei dettagli, eh eh. M’auguro in modo piacevole per vossignoria che spero possa apprezzare tale mia disanima, in merito, anomala e tale “faloticata” (sì, da falotico, parola che significa fantastico) sesquipedale e intelligentemente spropositata. Sì, vai di modestia, ah ah, inusitata...

David Gordon Green, a mio avviso un genio, un regista stoltamente snobbato dalla presuntuosa intellighenzia faziosa e stupidamente esigente con la puzza sotto il naso. Che, oppure ché, sì, l’ha immeritatamente morsicato e metaforicamente azzannato per il suo bel e coraggioso Halloween Ends.

Opus ultimo della sua altrettanto trilogia stoica, Halloween Ends, che resuscita il carpenteriano capostipite imbattuto e, malgrado il già battuto sentiero di seguiti apocrifi, spesso malriusciti e sovente dimenticabili, gli dona linfa vitale e lo rivitalizza con classe indubbia. Gordon Green, un regista giovane, soprattutto nell’animo, sperimentatore nato e talento adamantino che solo gli idioti ancora disdegnano e, giustappunto, in fretta liquidano a priori. Cannando spaventosamente in maniera più mostruosa del Myers, memorabile babau antieroe di tale saga, ça va sans dire, orrifica delle più immortali come Leatherface di Non aprite quella porta e Freddy Krueger di Nightmare, ih ih.

Mi persi nel labirinto della mia schizofrenia à la Michael Myers, no, persi questo film in sala e, soltanto a visione ultimata di tal appena dettovi Halloween Ends, da me ampiamente apprezzato e già da qualche giorno recensito in modo non superficiale, bensì superbamente sofisticato, recuperai, qualche ora fa (vi debbo dare anche il minuto preciso, ah ah?) il primo episodio di questo splendido franchise greeniano.

Green, regista sensibile, intelligente e colto oltremodo che spazia dal Cinema intimistico e prettamente citazionistico a quello tipicamente più del brivido senza sprezzo del pericolo. In questi giorni, peraltro, ha dato i primi ciak del suo remake dell’Esorcista. Alla faccia...

Halloween del 2018, a omaggio celebrativo del 40° anniversario dall’uscita del capolavoro omonimo e antesignano di John Carpenter. 2018, prima della pandemia, primo film, per l’appunto, di quest’imprevista, geniale e controversa trilogy dai cretini bistrattata, dalle persone accorte e profonde invece ottimamente accolta.

Trama, letteralmente estrapolata da IMDb, sì, cari bimbini col pannolino:

Laurie Strode giunge al suo ultimo confronto con Michael Myers, la figura mascherata che la perseguita da quando quarant’anni prima è riuscita a scampare alla spaventosa carneficina messa in atto la notte di Halloween.

È sempre lei, sì, Jamie Lee Curtis, figlia d’arte, figlia di cotanto padre Tony e di Janet Leigh. Esatto, Marion Crane dell’immarcescibile, eternamente “seminale” Psyco hitchcockiano, film padre e pellicola madre forse d’ogni epigono alla Anthony Perkins/Norman Bates. E Myers lo è, eh eh.

Ecco, se oggigiorno Jamie Lee Curtis si spogliasse, a mo’ della Leigh sotto la doccia, non mi ecciterei come Arnold Schwarzenegger dinanzi al suo epico, arrapante spogliarello di True Lies. Sì, oggi Jamie è vecchiotta e onestamente non la scoperei. Tantomeno la sgozzerei. Forse, dello shampoo le offrirei e un tè caldo le verserei, riscaldandola tutta...

Detto questo, cioè tale porcata, passiamo a tale mannaia, no, passiamo ad Allyson/Andi Matichak. Sì, a lei una botta... darei senza se e senza ma. Va fottuta di brutto, forse anche con del burro.

Evviva la sincerità, perdonatemi, moralisti del ca... o, se per tale mie “uscite” voleste sbattermi... in manicomio, posso assicurarvi che tutti gli psichiatri di Bologna che seguirono il mio caso, uh uh, son adesso impazziti e sono attualmente ricoverati a vita presso i maggiori nosocomi per malati di mente, fra cui quello Maggiore... La diagnosi, inconfutabile, effettuata nei loro riguardi è questa: il Falotico è un genius assoluto, s’è bevuto tutte le folli teorie malsane di Freud & Jung soltanto col fascino dei suoi occhi neri, più neri della loro perenne notte nefasta e cupissima.

A parte gli schizz(at)i, no, gli scherzi, procediamo ora con lo “scarabocchiare” tale review, no, andiamo con l’imbrattamento sanguigno. Questo sequel di Green non soffre di nessun complesso di colpa, no, imbruttimento, anzi, abbellisce e riammoderna il lutto delle vittime di Myers, no, restaura il tutto, ridonandogli vigore e forte furore da encomio.

Lo stesso Gordon Green, dopo le critiche impietose e, come poc’anzi scrittovi e riferite, lapidarie e ingrate, avvenute nei confronti del suo ultimo (?) chapter su Myers, così s’è recentissimamente espresso, sue testuali parole:

Quando qualcuno ti offre la possibilità di costruire la casa dei tuoi sogni all’interno di un conglomerato che presenta questo titolo e questi personaggi, cerchi sempre di metterci del tuo ed è quello che io ho fatto. Per ogni critica ricevuta ci sono anche le persone che ti ringraziano per aver portato il franchise in una nuova direzione e averlo mantenuto in vita.

Sì, ringrazio Gordon Green per avermi ricordato di essere io, spesso smemorato, giammai internato, eh eh, l’autore del libro John Carpenter - Prince of Darkness, disponibile in cartaceo e digitale sulle maggiori catene librarie online.

Dopo tale mia rinascenza, no, rimembranza, detta altresì sanissima reminiscenza non illusoria, bensì veritiera, dopo questo mio opportuno tributo “involontario”, rammemor(iam)o il film preso in questione, no, maggiormente nella sua trama lo eviscero e, usando il plurale maiestatico, descriviamolo e brevemente disaminiamolo.

Quarant’anni esatti, posteriori ai macabri avvenimenti luttuosi occorsi in quel dell’immaginaria, cinematograficamente però verissima, Haddonfield, dopo che fu chiamato il pronto soccorso, Myers è recluso nel manicomio criminale di Castiglione delle Stiviere, no, al Smith’.s Grove Sanitarium. Il dottor Loomis, alias Donald Pleasence, è morto e adesso Myers è un paziente curato, per modo di dire, da parte dello psichiatra di nome Ranbir Sartain (Haluk Bilginer). Due giornalisti investigativi, non quelli di Mindhunters, eh eh, bensì Aaron Korey e Dana Haines, incarnati rispettivamente dagli attori Jefferson Hall (antipaticissimo) e Rhian Ress (non bellissima, non una sberla, una passerona e una sventola, come si suol dire, neppure simpaticissima ma carina, insomma una discreta fighettina che va benissimo per una sveltina), vanno a trovare Myers. Che attende, in serata, di essere trasferito in un altro carcere da camic(i)e di forza... Perché non lo sopprimono? A quanto pare, non assume neurolettici né calmanti e/o inibitori della libido, no, psicofarmaci che ne castrino... l’aggressività. Cosicché, sul pullman in cui viene alloggiato, non incontra Nicolas Cage di Con Air (un aeroplano, comunque), eh eh. Al che, assieme all’allegra, invero tristissima, compagnia di suoi “colleghi” affetti da incurabile mental illness, non si reca a Fatima per chiedere il miracolo alla Vergine Maria ma assalisce qualcuno, il quale viene strozzato ma, un attimo prima di crepare, urlò alla Lino Banfi un Madonna dell’Incoroneeeta! (sì, vi giuro su Gesù, la scena suddetta non si vede ma avvenne così, fidatevi, ah ah). Riprecipitiamo nell’incubo. Laurie Strode (Jamie Lee Curtis), l’unica babysitter sopravvissuta alla strage e alla carneficina compiute da Myers, è cambiata, nell’aspetto fisico e interiore, in seguito alle cicatrici emotive subite e per il trauma patito a causa di Myers? Sì, anche se è cambiata fisicamente semplicemente perché prima era la Lee Curtis di Un pesce di nome Wanda (due cosce da paura) e di Una poltrona per due (un seno “tremendous”) e ora è indubbiamente stagionata poiché il tempo passa e dunque non è più la gnocca d’una volta, ah ah.

In compenso, la nipote non è la sua controfigura di Perfect, è bellina ma è ancora acerba e ha da farsi... molti ragazzi ma io le farei da assistente “sociale” non solo in Ognissanti. Cristo santo!

Nick Castle, uno dei pochi actors ad avere una filmografia più limitata dei pochi nanosecondi in cui The Shape, nel film originario di Carpenter, appare in viso, attore che ha pressoché solo lavorato con John, nel porco, no, parchetto del manicomio, viene inquadrato solo di spalle e appare mentalmente messo a pecora più di Luigi Di Maio in questi giorni in cui ha dato le dimissioni da Impegno Civico (presto chiederà il reddito di cittadinanza, ah ah), viene peraltro “doppiato” nelle scene in cui, con tuta da metalmeccanico in cassaintegrazione incazzato a morte, colpisce e accoltella con rabbia da comunista frustrato dinanzi alla vittoria di Giorgia Meloni, forse da Sylvester Stallone coi muscoli di Rambo ibernato alla Demolition Man.

Lo sceriffo della contea non è Brian Dennehy, bensì Will Patton. Uno che, in Mothman Prophecies, era affetto da disturbo delirante paranoide o forse era un genio incompreso e un veggente migliore di chi affermò che, alle scorse italiane elezioni politiche, la Sinistra avrebbe vinto a mani basse, mentre qui apparentemente muore ma poi risorgerà come Rifondazione...

Ora, a parte le cazzate, il film ha dei difetti rimarchevoli ed evidenti. Innanzitutto, dinanzi ai morti trucidati, coloro che assistono ai loro cadaveri e ai loro insanguinati, tumefatti corpi macellati, non rimangono agghiacciati e atterriti ma solo vagamente turbati. Pur rimanendo senza parole, pare che mentalmente pensino e (non) dicano: che culo, non è successo a me. Sì, erano bravi ragazzi ma forse anche no, forse erano degli stronzetti incoscienti e, in fondo, ha fatto bene Myers a eliminarli con un taglio netto prima del futuro loro orribile che avrebbero avuto. Si sarebbero ridotti a riguardare Scary Movie e basta, si sarebbero sposati e, malgrado si fossero giurati amore eterno, nonostante dopo poco dal matrimonio, dopo al massimo una decade, non più si amassero, non avrebbero chiesto il divorzio perché dovevano allev(i)are un figlio ora puberale che non smanetta dinanzi a Carmen Electra ma gioca a far il cyberbullo su YouTube. Prendendo vigliaccamente di mira e per il popò quelli più cazzoni di lui. Per esorcizzare i lor incubi peggiori. In questo film, c’è solo un ragazzo a posto col cervello, il povero “sfigato” che corteggia pateticamente Allyson in quanto era stato alla festa con lei e il suo ex ragazzo, divenuto ex dopo tal festa andata a puttane, surriscaldato dirimpetto a quel giro di gnocche spaventose da lui nemmeno avvicinate, pensò malamente di poter almeno dar lei un bacio ma, oltre a ricevere un devastante due di picche raggelante da quest’ultima, fu presto “inchiappettato” da Myers. Io l’avrei salvato. Sostanzialmente, anziché sdraiarsi a terra come un disgraziato impacciato, incontrando subitaneamente Myers, avrebbe dovuto inseguire Allyson, afferrarla da dietro, al buio, dapprima sussurrarle, alla Travis Bickle/De Niro di Taxi Driver, un secco e potente... lei è come tutti gli altri!, poi accarezzarle il collo e cantarle Love Me Tender alla Sailor/Nic Cage di Cuore selvaggio.

Lei, probabilmente, l’avrebbe coglionato ancora di più o forse, chissà, esterrefatta di fronte a qualcosa di così spiazzante ed eroticamente tanto suadente quanto brillante, gli avrebbe detto, orgogliosa ed eccitata, bagnatissima: - Prima fottiamo Myers, poi scopiamo come Carpenter con Adrienne Barbeau ai tempi di 1997: Fuga da New York.  Detto questo, David Gordon Green non è uno spostato, non è sposato, non è gay, a differenza del suo amico Luca Guadagnino, per cui s’è prestato a uno splendido cammeo in Bones and All, non m’interessano i suoi gusti sessuali ma il suo Cinema eccome. È uno con le palle. Non teme di essere accoltellato da spettatori e Critica, nel pre-finale di questo Halloween cita espressamente Il silenzio degli innocenti anche se Laurie Strode non usa gli infrarossi, nemmeno gli occhiali nella cameretta scura, si diverte, sperimenta, sbaglia tantissimo eppur parimenti azzecca delle scene meravigliose, non è lezioso o artefatto, è un regista naturale che non vuole vincere l’Oscar, forse più avanti, può darsi pure che lo vincerà, è del ’75, cioè ne ha ancora di strada da fare, a differenza di molti falliti che, dopo averlo stroncato per Halloween Ends, lo hanno addirittura intimato a suicidarsi.

Per costoro, ignobili impostori, predispongo immantinente un trattamento sanitario obbligatorio.

 

di Stefano Falotico

 

Jamie Lee Curtis, David Gordon Green

Halloween (2018): Jamie Lee Curtis, David Gordon Green

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