Regia di Seung-wan Ryoo vedi scheda film
Far East Film Festival 20 – Udine.
L’imbattersi in una pietanza che sappia abbinare qualità e quantità non può essere derubricato nella lista delle esperienze ordinarie. Il più delle volte, in un ristorante o si mangia tanto o bene, soddisfare entrambe le richieste è una virtù posseduta da pochi. Un discorso analogo vale anche per il cinema, soprattutto quando si tratta di far coabitare forma e contenuto, intrattenimento e qualità.
Mai disperare: esistono ristoratori che offrono una buona mediazione tra le richieste e pure film che, con pragmatica abilità, danno un colpo al cerchio e uno alla botte. Si tratta pur sempre di trovare un punto d’incontro, un contatto diplomatico che Battleship of Island conquista sul campo, senza affidare nulla al caso.
Isola di Hashima, 1944. Per sfruttare al meglio la ricchezza mineraria dell’isola, i giapponesi sfruttano senza pietà la manovalanza sudcoreana.
Schiavi a tutti gli effetti, deportati con la forza e l’inganno, tra le cui fila Lee Gang-ok (Jung-min Hwang) e sua figlia So-hee (Su-an Kim) sono gli ultimi arrivati.
Da buon padre, Lee non può pensare ad altro che salvare sua figlia, mentre nell’aria si percepisce il sopraggiungere di un momento di svolta.
Un’azione temeraria – e risolutiva - è alle porte.
115 giorni di riprese. Sei mesi per allestire il set principale. Una scena di massa che ha richiesto numerosi giorni di riprese.
Pur costando relativamente poco – 23 milioni di dollari – The battleship Island è, a tutti gli effetti, un blockbuster, un kolossal che spreme il budget a disposizione, senza scordarsi che il vero cinema non può essere confinato in una prova muscolare.
Di fatto, usufruisce di un genere – il war movie – che è un luogo sicuro nel quale articolarsi, sfruttato con cognizione di causa, innervando rapporti umani fondamentali, un passaggio successivo che ne amplifica la gittata.
Abbinando questi due apparati, nasce un’epopea umana che si snoda tra una dimensione collettiva e un’altra di carattere affettivo. Una lotta per la sopravvivenza organizzata con tutti i crismi del caso, che accumula tempo per creare una serie di condizioni fondamentali, sfogando il suo potenziale in una elaborata scena finale, semplicemente mastodontica che, all’effetto speciale, preferisce il lavoro di puro artigianato e la differenza si sente – e vede – tutta.
Contemporaneamente, esistono personaggi ambigui, alcuni da odiare e altri a cui affezionarsi incondizionatamente, mentre il nodale rapporto padre/figlia sgorga in tutta la sua carica emotiva, avvalendosi di un’inseminazione incastonata con largo anticipo.
Grandi sequenze d’azione e una girandola di rapporti che rispettano la coerenza della trama, annoverando inoltre interpretazioni importanti. Jung-min Hwang è una sicurezza, abile nel ricoprire un arcobaleno di sfumature, mentre la piccola Su-an Kim è una rivelazione assoluta: a comando, piange più di un salice o ride sguaiatamente con un’esuberanza trascinante, conquistando la platea senza ammettere alcuna riserva.
Tante qualità che contribuiscono a forgiare un apparato soppesato, anche nell’identificazione di buoni e cattivi, porgendo uno sguardo al futuro (l’esplosione atomica vista da lontano, un nuovo orizzonte, un’alba che cambierà ogni cosa), organizzandosi in modo tale da far emergere la sua imponenza scenica senza sottostimare in alcun modo il lato umano.
Sarà pure un po’ retorico - i giapponesi sono sempre brutti, sporchi e cattivi -, non sarà millesimato come un vino di prima scelta, ma il suo incedere è tonico, assolutamente galvanizzante.
Con qualità del genere, per un prodotto di consumo, si può parlare solo di vittoria.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta