Regia di Yayo Herrero vedi scheda film
Un interminabile corto tirato per le lunghe, costituente una profondissima metafora palese già dopo venti minuti, caratterizzato da un'incommensurabile pretenziosità stilistico-narrativa… Tanti potrebbero risultare i sostantivi e gli aggettivi adatti a descrivere questo sedicente film presentante almeno un’ora di girato di troppo.
Già l’incipit dovrebbe risultare più che sufficiente a temere il peggio e indurre ad interrompere prontamente la visione (il consiglio è di farlo, così da risparmiarsi la lunga agonia), tuttavia, complice una certa tendenza a non abbandonare una visione o una lettura appena iniziata nella speranza di veder emergere un miglioramento (spoiler: in questo caso, non accade), ci sarà sicuramente chi (come il sottoscritto) coraggiosamente deciderà di sottoporsi all’intera durata del lungometraggio, la qual operazione dovrebbe essere ritenuta indubbia dimostrazione di un’inusitata resistenza psico-fisica della quale andare più che fieri. Sì, perché riuscire ad arrivare alla conclusione di questo Maus è certamente un’impresa madornale.
Allora, vediamo di elaborare. Innanzitutto, il film si apre con un’estenuante piano-sequenza e la macchina da presa costantemente piantonata sui volti dei due attori protagonisti (specialmente su quello di una comunque brava Alma Terzic): un piano-sequenza chiuso, asfittico, “claustrofobico” con la regia che dopo cinque, dopo dieci minuti ancora insiste a vorticare di qua e di là tampinando i personaggi senza però offrire il ben che minimo appiglio al coinvolgimento di chi guarda. Come già accennato, anche solo questo inizio non lascia presagire nulla di buono.Difatti, è sfiancante, ai limiti della sopportazione: nulla si muove nella narrazione e la pazienza dello spettatore si assottiglia secondo dopo secondo.
Ci vuole un quarto d’ora perché i due si decidano a muovere qualche passo, a causa della ritrosia dimostrata dalla protagonista nell’avventurarsi per il sentiero (ritrosia comprensibile visto che, si scoprirà, SPOILER: il bosco non solo è un vastissimo campo minato ma, per di più, è lo stesso identico luogo dove molti dei suoi parenti “scomparirono” durante la guerra, il che induce inevitabilmente a chiedersi: e perché diamine il prode fidanzatino ha deciso allora di prendere proprio quella strada? Se anche non fosse stato al corrente dell’orribile vicenda, in ogni caso perché prendere una strada così impervia? Possibile che un bosco strapieno di mine fosse l’unica strada percorribile da e per la vecchia casa di Selma? FINE SPOILER).
Tuttavia, soprattutto in considerazione del fatto che tutto quanto sopraddetto si verrà a sapere solo in seguito, per una buona parte del film la protagonista riesce solo a rendersi insopportabile (accrescendo così la frustrazione dello spettatore) tra i suoi continui borbottamenti di preghierine, i suoi rifiuti di tradurre, le sue scenate e le inevitabili incomprensioni con il fidanzato, i suoi “sguardi omicidi”.
Complice una regia che vorrebbe essere sofisticata mentre continua pervicace a giocare pleonasticamente sulla dicotomia incubo/realtà, tentando di sfumarne i confini, per la prima mezz’ora buona (e forse di più) il film procede tra momenti di secca e improvvisi “guizzi” (come, ad esempio, SPOILER: il cane che salta su una mina FINE SPOILER), tra momenti di sogno e veglia, in definitiva tra momenti di tedio e scempiaggine (tra schermi neri, curiose evenienze [come, per dire, il fatto incontestabile che nessuno finisca mai su una mina sino a quando non fa comodo alla sceneggiatura…] e ridicole apparizioni del “Maus” alle spalle della protagonista), sin dunque a giungere alla resa dei conti che più involontariamente grottesca non si può
(SPOILER: con lei che si fa rapidamente trovare visto che non può fare a meno di continuare a predicare [recitando Ya Hafizu, Ya Hafizu, Ya Hafizu con encomiabile ostinazione], uno degli aguzzini che quindi le si avvicina disarmato [nonostante sia proprio quello cui poco prima lei aveva tentato di saltare addosso] e si fa di conseguenza comodamente accoltellare;
poi quell’altro che, sopraggiunto, riesce a catturarla ma poco dopo decide genialmente di lasciarla andare per poi dare inizio ad un simpatico e originalissimo gioco del gatto col topo, mettendosi a sparare praticamente alla cieca col mitra [un’insopportabile ripresa circolare che, come in numerosissimi altri momenti del film, pare non finire mai] salvo poi farsi sorprendere dalla furtiva protagonista, accoltellare allo stomaco senza opporre la minima resistenza né prima né dopo. Alé! FINE SPOILER).
Tale resa dei conti è comunque inutile illudersi risulti conclusiva, in quanto il film in realtà ha ancora molto altro da dire, ovvero, in accordo con la sua logica interna, ha da reiterare per l’ennesima volta il messaggio (ma quanto è brutta la guerra, quanto sono brutte le divisioni, quanto profonde le lacerazioni e le ferite, quanto difficile superarle, quanto arduo fidarsi del prossimo dopo certe esperienze, quanto dolorosa una lotta sostanzialmente fratricida…).
Non si tratta, chiaramente, di tematiche indifferenti o da prendere sottobanco, ma il film non vi rende altrettanto chiaramente alcuna giustizia e, d’altra parte, il punto lo si era già capito dopo venti minuti: lo si può anche vedere come una sorta di grande metafora dei rapporti tra l’Europa (NATO), rappresentata da Alex, e le popolazioni in guerra in Bosnia-Erzegovina, rappresentati da Selma e da Vuk e Milos, tra incomprensioni, indifferenza, tra i soliti sedicenti buoni propositi e il tardivo intervento a suon di bombe.
Peccato che anche questo lo si intuisca dopo i primi venti-trenta minuti e peccato che il film vada avanti per un’altra ora e si incarti in un finale sinceramente indifendibile
(SPOILER: uno scarto sconcertante che, sul momento, fa cascar le braccia e, in seguito, le fa cascare doppiamente: perché sì, magari [un’ipotesi vale l’altra…] è lui che a questo punto è sopravvissuto, lui [quindi supponiamo “per estensione” l’Europa] adesso ad avere i suoi demoni, lui ad essere in qualche modo perseguitato dal passato, lui che comincia a capirla veramente la sensazione provata dalla sua ragazza a causa, supponiamo ancora, del terrorismo invece che della guerra… uhh, che profondità! Senza contare, poi, che, arrivati a questo punto, lo spettatore ha ormai perso da lungo tempo qualunque interesse FINE SPOILER).
Per concludere: non fa mostra di particolare tensione, è stiracchiato, decisamente tirato per le lunghe, piuttosto irritante nel suo continuo e palese tentativo di costruire una profondissima metafora storica e nel suo utilizzo sfibrante della tecnica cinematografica (tra piani-sequenza, riprese circolari, primi piani interminabili) e dunque cosa rimane per giustificare (ma forse neanche tanto) la visione di questo Maus? Se proprio si vuole andare a ricercare: la recitazione (ancora una volta: molto brava in particolare la Terzic, ma convincenti in genere pure i comprimari). Per il resto, non c’è altro da aggiungere. Que fatiga, que pena.
Presentato in vari festival, il film non è mai stato neppure distribuito nelle sale, ma è disponibile in streaming su Netflix, per i più prodi.
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