Regia di Matteo Rovere vedi scheda film
Le origini leggendarie dell'Urbe che dominerà il mondo raccontate con grande verosimiglianza. Un film di grande impatto per la vivacità narrativa e per il crudo realismo, di ottima riuscita grazie alla perizia del regista e alle notevoli interpretazioni dei due protagonisti
Nei selvaggi territori laziali dell'VIII secolo a.C. gli uomini lottano per sopravvivere contro una natura spaventosa che scatena paure irrazionali e lottano pure fra di loro. Un mondo spietato i cui abitanti guardano le luci dell'alba sapendo che difficilmente riusciranno ad ammirare quelle del tramonto.
Fra questi i due fratelli pastori Romolo e Remo, travolti da una improvvisa ondata di piena del fiume Tevere, catturati dai guerrieri di Alba Longa insieme ad altri disperati per essere sottoposti a un rito sacrificale, sopravissuti con la forza e la rabbia della disperazione e determinati a trovare la via di casa insieme agli altri scampati, in un percorso che li porterà a confrontarsi con i loro lati oscuri.
Il Primo Re indaga su un episodio celeberrimo della storia di Roma, talmente famoso che praticamente tutti noi non possiamo non ricordare di averlo sentito raccontare ai tempi delle elementari. Tanto conosciuto quanto, dal punto di vista storico-scientifico, inattendibile.
Sì perché, ovviamente, la storia dei gemelli figli di Rea Silvia e nipoti di Numitore, re legittimo di Alba Longa estromesso dal fratello usurpatore Amulio, salvati da morte certa da una lupa che li alleva come cuccioli suoi, è una leggenda.
Matteo Rovere prende le figure mitiche dei due gemelli e le cala in contesto di totale realismo: Romolo e Remo sono due pastori impegnati nella sopravvivenza quotidiana, uniti non solo dal vincolo di fratellanza ma anche da un destino amaro (hanno visto la madre portata via in schiavitù dai soldati di Alba Longa).
Non c'è nulla di epico nei due giovani, vestiti di misere pelli, sporchi e pieni di cicatrici, esattamente come doveva essere per uomini che vivevano in un ambiente dominato da una natura ostile. E non c'è nulla di epico nemmeno nella città di Alba Longa, la cui civiltà superiore si evince solo dall'uso dei cavalli e dalle armi forgiate nel metallo, oltre che da una forma di religiosità più elaborata.
E qui sta la forza del film di Rovere, in una ricostruzione attentissima, fino a rasentare il documentarismo, di quello che era il contesto naturale e sociale dell'Italia centrale di quasi tremila anni fa, aiutato in questo dalla splendida fotografia di Daniele Ciprì che ha utilizzato solo la luce naturale. Ricerca del dettaglio che ha portato alla scelta di utilizzare per i dialoghi una lingua protolatina, ricostruita dagli studiosi partendo dal latino arcaico e utilizzando l'indoeuropeo laddove non vi erano elementi sufficienti. Una lingua dunque non parlata realmente ma con buona probabilità assai simile agli idiomi che si utilizzavano in quell'epoca e in quella zona.
In simile ambito trova dunque giustificazione anche una ostentazione della violenza che può apparire eccessiva, ma che in quei tempi faceva parte della realtà quotidiana.
Partendo dunque da un tale contesto storico e ambientale, Rovere propone non solo la narrazione verosimile degli eventi che hanno portato alla nascita dell'Urbe, ma anche una riflessione sul potere, sull'intolleranza e sullo spirito religioso. E sotto questo profilo i due fratelli si pongono su fronti contrapposti: Remo, che si ritaglia con la sua forza il ruolo di leader del gruppo di fuggitivi, è la violenza che prevarica gli altri, il potere fondato sul terrore (come affermato dallo stesso in un dialogo col fratello), Romolo è invece l'incarnazione della tolleranza, della devozione religiosa (esemplare in tal senso il fatto che la storia si apra proprio con lui assorto in preghiera mentre Remo osserva preoccupato gli eventi atmosferici). Egli è quasi l'antesignano di quel sentimento che i romani chiameranno “pietas” (non identificabile con la pietà in senso odierno quanto piuttosto con il rispetto verso la religione e di conseguenza verso gli altri).
Sarà alla fine, come tutti sappiamo, il pio Romolo, quasi suo malgrado, a prevalere sul violento fratello e a dare origine al nucleo fondante di quello che diventerà un impero.
Avendo parlato diffusamente dei pregi è però inevitabile (e corretto) parlare anche dei limiti, il più evidente dei quali si pone in una disparità di ritmo narrativo: vivace e rabbioso nella prima parte il film rallenta molto nella seconda finendo anche per appesantirsi non poco. E ciò in qualche maniera inficia il risultato finale.
Tuttavia nel complesso ci troviamo di fronte a un'opera di notevole livello, in cui non mancano rimandi ad altre pellicole, la prima delle quali è indubbiamente quell'Apocalypto da più parti già portato come metro di paragone, anche per la recitazione in lingua (in quel caso il maya), ma che ha la forza necessaria a presentarsi come un lavoro di grande originalità nel panorama cinematografico nostrano.
Un'opera che deve molto della sua riuscita anche alla notevole interpretazione di Alessio Lapice (Romolo) e soprattutto a quella di Alessandro Borghi che rende una personificazione di Remo di eccezionale intensità.
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