Regia di Matteo Rovere vedi scheda film
La pioggia continua ad abbattersi inesorabile sulle campagne ed ingrossa ogni giorno di più il grande fiume. Un pastore invoca l'aiuto della Triplice Dea, affinché possa riportare finalmente il sole: un raggio si affaccia oltre le nuvole e l'aria si fa all'improvviso solida e ferma riscaldata da una flebile speranza, oltre le fronde alte che coprono l'orizzonte. Poi un grido selvaggio ed istintivo. Un attimo ed un muro d'acqua si abbatte sul gregge, devastando boschi e spiazzi in un inferno di fango, trascinando nel suo vortice due uomini che solo la forza della disperazione e l'istinto di mutuo soccorso aiuterà a sopravvivere. Finendo poi sbalzati, feriti e e privi di sensi sul lato sbagliato del Tevere: facili prede dei cavalieri di Alba. Recuperati e fatti prigionieri, saranno coinvolti in un rito sacrificale notturno ma riusciranno a liberare sé ed altri. Manipolo di reietti tenuti insieme dagli eventi, si lanceranno in una corsa furiosa addentro a foreste e acquitrini, sotto le foglie marce dall'umidità e nel sangue oltre le proprie paure primordiali, la fame, il dolore delle ossa spezzate e delle carni squarciate. Non sarà però il nemico a percuoterli fino ad abbatterli, bensì il Fato, che qui si erge a Dio. Solo colui che si piegherà al suo volere rimarrà in piedi.
Latium vetus, 753 a.C.: non ci si aspetti una ricostruzione storicamente, geograficamente, linguisticamente del tutto "corretta", in questo film. Matteo Rovere ed i suoi collaboratori (tra cui l'etruscologa Maria Donatella Gentili) si infilano in discussioni accademiche di lungo corso e nei meandri del mito e della mancanza di fonti, ricreando, aggiungendo e cancellando, non senza una certa presunzione ma di sicuro con un piglio interpretativo deciso. Alla cui base sta un assunto filologicamente perfetto: Roma che nasce da un groviglio caotico di villaggi e popoli cugini e litigiosi e che costruisce la propria identità e quindi potenza nel rispetto dell'ordine, di un ordine divino e umano che via via troverà il senso di sé e la sua codifica.
L'Ottavo secolo prima di Cristo, nel Centro Italia, pare più che altro barbara preistoria nel grande Nord: se l'utilizzo massiccio di pellicce è sembrato ad alcuni una caduta di stile alla "Game of Thrones" è bene ricordare che il periodo dal 900 al 300 a.C. viene definito dagli storici "Piccola Età Glaciale": umido e gelido. Scelta pertanto plausibile quella delle pelli pesanti di animali esattamente come plauso è stato espresso comunemente per la ricostruzione delle attrezzature militari. Oltre la bella scenografia però, è abbastanza difficile digerire un diffuso eccesso di arcaismo ne "Il primo re". Spazzati via in un colpo solo i confinanti Sabini, Osci (di altro ceppo comunque, e la cui lingua ha fonti letterarie sopravvissute anche in epoca romana) i Greci ma soprattutto gli Etruschi e la loro civiltà complessa ed evoluta, i protolatini sembrano cavernicoli rimasti alla Tarda Età del Bronzo senza nessuna evoluzione culturale dalla grande emigrazione indoeuropea in poi. Le origini nobili ed eroiche (il padre Marte, Rea Silvia, Numitore, Ascanio, Enea) non ci sono. Se la natura è interpretata nella sua sola accezione devastatrice, non si possono levare perplessità sulla messa in scena della religione: spettacolare ma semplicistica soprattutto se si leggono fonti assodate come "La Religione Romana Arcaica" dell'accademico di Francia Georges Dumezil. Niente lupe, e va bene: ma niente Pantheon proprio! Con una regressione al paganesimo animista vero e proprio (Triplice Dea appunto), dentro al quale il ruolo del fuoco sacro è centrale ma non proprio risolto, così come l'arte divinatoria - di cui si predilige l'aspetto truculento a discapito di quello più riflessivo e magari poetico (vedi il volo degli uccelli).
Opinabile anche la geografia, se i reperti ci parlano di un'area collinare a cui persino il nome Roma potrebbe far riferimento ("ruma", con le varianti "rumis" e "rumen": mammella). Anche se qui, devo ammetterlo, le riprese (molto criticate perché "anacronistiche") dall'alto del Tevere selvaggio e malevolo in una quasi palude piatta, conferiscono un fascino drammatico alla narrazione. Ed apprezzabile è l'utilizzo, mai puramente estetico, delle locations.
Un capitolo a parte merita la lingua: un protolatino ricostruito in laboratorio su canovaccio indoeuropeo con innesti massicci di latino classico, impossibile da criticare in quanto del tutto ipotetico. Personalmente non ho mai gradito questa filologia manichea della "lingua originale" per forza (alla Mel Gibson, per intenderci), eppure, in questo caso specifico, alla prova dei fatti l'ho apprezzata, forse anche grazie a ragioni fonetiche: la decisione di adottare una pronuncia vicina a quella dell'italiano moderno (sebbene qui, si sa, le discussioni accademiche anche furiose si sprecano) che consente allo spettatore di ritrovarsi a proprio agio, non ultimo riconoscendosi letteralmente come in uno specchio deformante/invecchiante (divertente ritrovare parole conosciute: necavit è la prima che mi viene in mente). Tra l'altro, in definitiva, la forza del film sta molto nei silenzi ed i sottotitoli si fanno sempre ben seguire.
Sceneggiato dai fedeli Filippo Gravino e Francesca Manieri, "Il primo re" pecca purtroppo di un ritmo discontinuo: o meglio, forse, di un eccesso di commistioni di genere, che alla fine confondono non poco lo spettatore. Il cuore della narrazione - il conflitto fra i fratelli, le loro diverse personalità, il modo di sentire il divino e una interpretazione divergente del potere - arriva troppo tardi ed è relegato ad un terzo del minutaggio complessivo. Se elogi non sono mancati alla fotografia di Daniele Ciprì, mi sento di smorzarli solo in parte, a favore di un più generico apprezzamento per tutto il comparto "immagine": fotografia, scelta delle locations, regia ma anche scenografia, costumi, trucco, uniti in una collaborazione che soprende per omogeneità ed equilibrio. Buone nel complesso le prove attoriali - della sconosciuta Tania Garribba per esempio - sulle quali si staglia certamente il giovane Alessio Lapice parco di parole e dall'incedere claudicante ma determinato, a cui sono affidate le due battute cardine (e potrei citarle sbagliate perché vado a memoria): sdraiato nel letto, spalle al fratello, quasi con angoscia: "Ma veramente non lo senti, il Dio?" e la finale, sussurrata: "Tremate, questa è Roma". E' Romolo, il secondo e più debole fra i fratelli, che incarnerà la pietas romana ed uscirà vincente. Mentre impius, l'empio Remo è interpretato da un Alessandro Borghi sul serio un po' troppo accademico nella sua hybris. Forse pure timoroso (o incapace) lui, protagonista, di conferire al personaggio quella necessaria ambiguità anche fisica che invece la sceneggiatura insinua, nel rimarcare l'attaccamento viscerale con Romolo, l'essere uno nell'altro dei due fratelli.
Malissimo il sonoro. Enfatico e fantasioso nell'utilizzo dei suoni - sia per scelta oggettiva degli stessi che per i toni sempre invadenti. Colonna sonora sotto la sufficienza soprattutto per eccesso di prevedibilità e mancanza di una linea stilistica precisa: percussioni, suoni elettronici, un tema sinfonico finale. Da salvare solo il canto dei bambini ispirato, sembra, a temi popolari.
Con tutti gli scetticismi del caso sopra elencati, "Il primo re" restituisce al pubblico 127 minuti di grande spettacolo e merita, concretamente, supporto ed attenzione. Lontano da ogni intellettualismo ma anche da eccessi autocompiaciuti, esso si forgia nella concretezza delle azioni e rifugge volontariamente il mito dell'epica. Non è cinema storico, non è cinema d'avventura, non è cinema fondativo o esplicativo: di sicuro non è cinema minimalista ma anzi massimalista, ambizioso fino alla presunzione, magniloquente nel suo iperrealismo. Assolutamente da vedere.
Originale nel panorama internazionale, non perde mai la sua natura profondamente artigianale che ne fa un film assolutamente italiano anche se a tratti non si comprende bene se questa cosa sia voluta oppure no. Ecco, forse, il vero grande difetto de "Il primo re" sta proprio qui: nel suo stagliarsi audace e brutale, nel maneggiare cotanta lontananza dalla tradizione, necessitava e necessita di carisma. Tanto e più carisma. Maturità e carisma: narrativi ed estetici che ancora a Matteo Rovere mancano.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta