Regia di Woody Allen vedi scheda film
È una favola folle e paradossale, soprannaturale ed evocativa, sulla potenza del cinema e la monotonia della realtà. Su La rosa purpurea del Cairo si potrebbero intraprendere discorsi filosoficamente elevati, sulla sostanza dei corpi e l’evanescenza delle anime che passano sullo schermo. Allen non considera gli attori – o meglio, gli abitanti della pellicola che attraversa lo schermo – come uomini e donne capaci di vita propria, ma come enti paralleli stanti nella loro immaginaria realtà in bianco e nero (siamo ancora nella grande depressione del 1929, quando il cinema rappresentava la valvola di sfogo di un Paese che voleva evadere dall’angoscia del quotidiano).
Nel suo saltare da una parte all’altra è una ironica e tenera piccola parabola sull’illusione del mezzo cinematografico, declinata su registri fantastici con lo stile della comica muta e lo spirito consapevole della malinconia specificatamente alleniana. Ci sono due mondi che si incontrano e si scontrano, si sfiorano e si fondono, con una naturalezza artificiosa: non si capisce bene se siano meglio, nonostante tutto, le ordinarie problematiche del vivere quotidiano, o le rarefatte sensazioni del vivere filmico, in cui la dissolvenza può decretare il termine di un momento e l’interruzione dell’attimo.
Alla fine, difatti, le cose tornano al loro posto, ma con il rimorso che forse qualcosa sarebbe potuto succedere. E gli occhi della disillusa e bidonata Mia Farrow, languidi e tristemente sereni, che si rivolgono allo schermo nel quale ballano allegri Ginger e Fred, sono la dimostrazione che la breve avventura del parallelismo esistenziale non sarebbe potuta durare a lungo. Complice la danza, Allen vuole far intendere come la vita e il cinema siano due realtà differenti, ma che l’una è in funzione dell’altra in quanto l’una contempla l’altra. Uno dei massimi risultati raggiunti da Woody Allen, un portento di delicatezza espositiva e sensibilità registica, originalità narrativa e sapori perduti.
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