Regia di Renzo Carbonera vedi scheda film
Che dire? Sceneggiatura esile esile, ritmo sonnacchioso in un contesto sociale non nuovo perchè raccontato (molto meglio) in una miriade di opere che lo hanno preceduto. Manca insomma un'idea forte che lo sorregga.
Il problema principale di questo film (opera d'esordio nel lungometraggio del trentottenne regista friulano- bavarese Renzo Carbonera) è che ha un impianto narrativo non proprio inedito (io lo definirei addirittura risaputo) sviluppato peraltro con più di un'incertezza nell’esposizione degli avvenimenti raccontati. Il ritmo è spesso sonnacchioso e la sceneggiatura (scritta dal regista insieme a Alessandro Bandinelli) troppo esile per far volare in alto il risultato finale di un’operazione comunque ambiziosa e anche interessante (ma a mio avviso, non completamente riuscita).
La storia è presto detta. Ha per protagonista una giovane ragazza, Maria (ottimamente interpretata da Maria Roveran che si era già fatta notare positivamente nel film Piccola patria del 2013 diretto da Alberto Rossetto) che, a causa della morte del fratello per un incidente col trattore mentre era impegnato ad impiantare un vigneto sull'altipiano delle Alpi Cimbre, è costretta a ritornare a casa dalla città dove si era trasferita e vede così sfumare definitivamente il sogno che coltivava da sempre di affermarsi come violoncellista nel firmamento musicale dei grandi teatri italiani e internazionali
Si ritrova così ricacciata in un mondo provinciale (che è poi quello dal quale aveva inteso fuggire) a dover fare i conti con la madre, afflitta da un disturbo psicologico che la isola dalla realtà, e con la cognata Sara oppressa dalle rate di un mutuo sempre più difficile da onorare e alle prese con un bambino da allevare senza più la presenza protettiva del marito. Il contesto sociale col quale deve confrontarsi è dunque abbastanza problematico e ripiegato su se stesso (il paese è quello di Luserna in provincia di Trento dove si parla ancora il cimbro, arcaica lingua germanica e dove i pochi abitanti rimasti che non sono ancora emigrati altrove, continuano a vivere un tran tran giornaliero senza sussulti o scosse, con la sola evasione di ritrovarsi la sera al bar per robuste bevute in compagnia e qualche partita a carte) che sembra essere anni luce lontano dalla cosiddetta civiltà cittadina nella quale la ragazza aveva cercato di integrarsi.
Il disagio individuale (ma anche collettivo) è insomma palpabile ed è strettamente connesso con la perdita progressiva del senso di appartenenza, amplificata da un isolamento volutamente ghettizzante, nonostante la relativa vicinanza (in senso chilometrico) dal capoluogo di provincia di riferimento.
Gente rude insomma (se vogliamo, alche orgogliosamente altera) che ha difficoltà ad esternare sentimenti, affetti o avversioni, ma che è soprattutto incapace di chiedere aiuto o di ammettere il proprio disagio interiore..
Per fortuna c’è qualcuno che continua a portare avanti la tradizione del coro della comunità locale guidato da Quirino a cui presta fisicità e carattere Thierry Toscan (già valido protagonista de Il vento fa il suo giro diretto da Giorgio Diritti) che insieme alla Roveran è uno dei pochi attori impegnati nell’impresa che hanno già avuto precedenti, proficui rapporti operativi con questa difficilissima professione e che per questo si distinguono positivamente dentro a un parterre generale per lo più formato dal volonteroso spontaneismo di interpreti direttamente presi dal contesto sociale di riferimento.
Non parla nè si confida nemmeno la scontrosa ritrosia di Sara, che lascia comunque trasparire un forte risentimento nei confronti di Maria, resasi rea ai suoi occhi delle colpe inemendabili di aver abbandonato la famiglia e rinnegato le sue radici natali per poter realizzare il suo sogno.
L’avvio è maestoso, quasi solenne con il paesaggio montano avvolto nella nebbia (ben fotografato da Harald Erschbaumer) che nella progressione narrativa della storia, finisce per assumere sempre maggior spessore trasformandosi da semplice ambientazione e sfondo delle vicende narrate, in un elemento vivo e pulsante ancor più valido e interessante dei personaggi che lo abitano (e delle loro attività quotidiane) perché sorretto da un realismo senza fronzoli o eccessivi compiacimenti che rende il tutto efficace e necessario.
C’è poi la musica a fare da collante (la coinvolgente solennità del Coro Polifonico di Ruda e la pregnante colonna sonora di Luca Ciut). E’ infatti proprio la musica il veicolo che permette a Quirino di comunicare e di entrare in contatto diretto con Maria e il suo violoncello (che ha un valore anche simbologico poiché rappresenta al tempo stesso la memoria di un passato ormai svanito e non più recuperabile, e la realtà castrante di un presente incerto e senza prospettive.
E sarà ancora la musica a rendere non solo palese l’attrazione che si sviluppa fra la stessa Maria e l’assistente dell’istituto che ospita sua madre (un valido Alessandro Averone) ma anche a dare concretezza al progetto di rimpinguare il coro (superando indifferenza e diffidenza) per poterlo così iscrivere a un ipotetico concorso che pur fra mille difficoltà, permetterà di riannodare i fili di una rinnovata armonia e condivisione
.
Nonostante i limiti della pellicola, Carbonera (autore in precedenza solo di documentari e di qualche corto) merita attenzione (non dimentichiamo che si tratta di un’opera prima che mostra comunque una certa maturità di visione che ha però bisogno di una acquisizione di solidità che si raggiunge solo con l’esperienza). C’è da sperare quindi che il nostro sistema cinema gli offra qualche nuova occasione di raccontare storie anche più personali e meno usurate di questa.
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