Regia di Paolo Sorrentino vedi scheda film
Distese di corpi ipercinetici, quindi assorti in una fissità tragica, come in una brugueliana salita al Calvario, o discesa agli inferi. Uomini, donne, ceto medio e generone, politici di dubbio rango, affaristi, faccendieri, imprenditoria incline ai compromessi: sciame, satellite che guarda da lontano, e agogna. Loro, e Lui. Se è complicato esprimere un giudizio compiuto, completo e complesso sull’ultima opera sorrentiniana prima della visione della seconda parte, può tuttavia dirsi che già questo Loro 1 rappresenta un film doppio e bipartito: una prima parte è la descrizione assai lucida del sottobosco di cui sopra, api che rincorrono il miele, mezze figure di postulanti che danzano attorno alla vertigine del potere, dei corpi, del sesso e di essa si inebetiscono, una seconda che contempla l’entrata in scena del protagonista ampiamente evocato, il Totem, il Presidente, il Deus ex Machina, il Padrone. Ad un atout calligrafico da grande bellezza in salsa politica subentra una dimensione quasi intima in cui Lui viene colto nello sgomento della vacanza dal potere, nelle beghe coniugali, nella solitudine del sultano cadenzata dalle menzogne e dai discorsi sul fascino e la ineluttabilità della menzogna. E qui il filo del film un po’ si avvolge su se stesso, la rappresentazione di Berlusconi in chiave farsesca essendo operazione ad altissimo rischio boutade, se si consideri come la realtà si sia ampiamente fatta carico di superare in corsa ogni costruzione della fantasia, se si pensi che ancor oggi ci ritroviamo a fronteggiare ed osservare un Lui in gran spolvero, in gramaglie fisiche ma consuete finzioni (fiction) delle cose, esemplare forse irripetibile ed irreplicabile di narratore ed edificatore di una realtà capace di scardinare punti fermi ed imporre una nuova dialettica, una inedita prossemica, in altre parole una (per quanto deleteria) idea imperante di cultura di massa. Potrà Loro, con le sue invenzioni stilistiche, la retorica a volte impetuosa a volte un po’ all’acqua di rose (B. che porge le condoglianze ad una pecora, il ratto gigante che si manifesta mentre dalle sue parti avanza un plotone di ragazzotte in carriera, di figa come direbbe sempre Lui) rovesciare i lasciti, il retaggio dell’infinito e mai domo ventennio berlusconiano? Oppure dobbiamo accontentarci di una satira, pure di alto livello, un controbagaglino che sfidi Lui, e lo smascheri, sul terreno sconosciuto della cultura e della metafora? Il dubbio, nell’attesa della seconda parte, resta lecito.
LORO. Nomi e cognomi (Noemi Letizia, Mariano Apicella, secondo piano, bassa manovalanza al servizio del potere, verrebbe da dire), maschere più vere delle originali (Scamarcio/Tarantini, Axen/D’Addario, Bentivoglio/Bondi), quindi un coacervo da girone dantesco di politici e politicanti, segretarie, consiglieri, accompagnatori di accompagnatrici, i consueti animali di Sorrentino (la pecora, su cui sarà necessario spendere più in là qualche parola, il rinoceronte), comparse angeliche e angelicate spedite tra le grinfie laide del Lupo/Dio (Confalonieri?). Soprattutto donne, ragazze, provinate e provinande, di bocca buona, fulminate sulla via di Damasco del gettone di presenza nel mondo che conta. Figa, se ci perdonate l’iterazione del francesismo, leva di Archimede, grimaldello, passe-partout per la riconoscibilità sociale. Nella raffigurazione di questo demi-monde Sorrentino dà il meglio. Non temendo di replicare le vorticose immagini de La grande bellezza, aggiunge grottesco a grottesco, bruttezza a bruttezza, sottrae a questa gioventù ballerina la devastante malinconia, la noia fulminante delle terrazze Martini, per dotarla di un consapevole (benché ugualmente triste) arrivismo. Laddove, nell’altro film romano, i festaioli potevano dirsi gente arrivata, ma ormai alla frutta, in questo (che è film romano, ma anche sardo/milanese) le party girl e i magnaccia travestiti da attivisti para-politici hanno ancora lacerti di innocenza destinati a smarrirsi nella rincorsa al sogno facile, nella adesione a quella cultura da spot che inquadra lustrini e nasconde la spazzatura al di sotto delle telecamere. Paradigmatica la scena al termine della festa in Sardegna: un tristissimo Aspettando Godot (sempre Lui, che tarda a manifestarsi, istrionica Wanda Osiris che gioca con quell’amore che sente di aver conquistato), giovani uomini e donne, stracchi, stanchi, strafatti che guardano sull’altra sponda. Guardano il nulla, avviandosi a divenire nulla, numero, firma su contrattini, carne da macello intercambiabile . Qualcuno dice: Bisognerebbe restare così, come siamo ora, per sempre. Esatto, forse la salvezza sarebbe stata ancora possibile. Sono queste improvvise esplosioni di poesia malata che confermano, se ce ne fosse bisogno, il talento autoriale ed immaginifico di Sorrentino, il gusto per il dettaglio sviscerato nelle panoramiche, nei primi piani (impagabili alcune inquadrature del Bentivoglio/Bondi che restituiscono tutta l’angoscia, la piccineria del parvenu).
LUI. E poi Lui appare. Solo, o quasi. Con il sodale Apicella (ennesimo esempio di mediocrità al potere, numero sulla rutilante ruota del successo. Ma la ruota gira, i numeri sono destinati a cambiare, ad eclissarsi), con un calciatore erede di Maradona cui offrire contratti principeschi (ricevendone in cambio una frase di idealismo da ripetere furbescamente ove occasione lo imponga), con il nipotino cui impartire lezioni di pragmatismo e di salita al piedistallo, con il fido Bondi, da scaricare impunemente come solo i potenti sanno fare con i leccaculo che si beano di poesiole da scuola elementare. Soprattutto con Lei. Veronica (un’ottima Elena Sofia Ricci, e sempre più bella se ci è consentito). Lei che accetta le menzogne ma non gli assalti alla dignità personale, Lei che legge Saramago e si annoia tra il lusso (forse un po’ eccessiva questa raffigurazione in salsa iperintellettuale della consorte di B.), Lei che, alla fine, e per il momento, crede ancora a quell’uomo, quello che (Enzo Biagi dixit), se avesse avuto le tette, avrebbe fatto con successo anche l’annunciatrice, imbonitore per destino, paraculo per investitura popolare, salace per mancanza di (prona) concorrenza. Lui è, naturalmente, Toni Servillo che un po’ servilleggia, si produce in buonissimo milanese berlusconiano, si sforza mimeticamente e, come da talento innato, riesce. Motteggia, in puro Sorrentino-style (qui, va detto, più contenuto del solito, rinunciando gli sceneggiatori a quella sentenziosità a volte troppo tranchant che fa la fortuna retorica dei fans e degli avversari del regista) e costruisce una ennesima maschera. Troppo maschera, probabilmente: aspettando la seconda parte, ritorna il dubbio già prospettato. Se sia possibile una reductio ad unum della debordante personalità del B., (Agnelli ha ereditato una fortuna, io mi sono fatto da solo), quell’impasto di sicumera e furbizia, quasi ingenua nella sua convinzione di arrivare a tutti (arrivando effettivamente alla maggior parte di un popolo), senza cadere nell’esercizio di stile, nella bacheca ridondante di battute (molte azzeccate. Veronica: sulla sua barca Agnelli aveva un ritratto fattogli da Bacon, noi abbiamo Apicella), nel rischio di creare, nella deformazione grandangolare di un uomo fortemente controverso, una sorta di straniante simpatia.
NOI. E poi ci siamo Noi, quelli della serva Italia di dolore ostello. Noi siamo la pecora che, nella scena iniziale, stramazza al suolo uccisa dall’aria condizionata. O forse no: inebetita, anestetizzata, infine finita dalla visione di Mike Bongiorno che sponsorizza la sua mortadella. Noi siamo gli occhi della bellissima Veronica ventenne che, in una deserta notte milanese, guarda in camera e confessa di essersi innamorata di Lui. Noi e il nostro colpo di fulmine ancora non sbiadito, noi ed il nostro amore cantato, recitato, vergato nel segreto delle cabine elettorali. Intanto Fabio Concato (quello vero) intona, con voce piegata dagli anni, Domenica Bestiale, la Loro/Nostra canzone. E dà una veste melodica ed accettabile al trash.
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