Regia di Mario Martone vedi scheda film
La genesi del film sta' nella tela "Non uccidere"
visionata da M. Martone e dalla moglie Ippolita di Maio, alla Certosa di San Giacomo. Ne scaturisce un approfondimento sulla biografia ed opera del pittore tedesco ottocentesco Karl Wilhelm Diefenbach, attivo proprio a Capri agli inizi del Novecento e qui fondatore di una "comune" nella quale si praticava una vita in armonia con la natura, vegetarismo, nudismo, rifiuto della monogramia, alienità a qualsiasi religione (sebbene egli fosse un seguace della teosofia). Ispirato anche dal fascino di un altro artista, (assai più tardo) il concettuale Joseph Beuys, e dalla strana esperienza di Monte Verità, nel Canton Ticino, il regista napoletano matura un progetto ambizioso. Che trova definitivo esito in "Capri Revolution".
Presentato alla 75ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, trova un tiepida accoglienza. Forse per la difficile definizione per questa opera, a primo acchito "strana". Aggettivo che personalmente tendo a non utilizzare in quanto omnicomprensivo e diplomatico, ma in questo caso centratissimo.
"Capri Revolution" è un film strano. Non assimilabile a un "genere", innanzi tutto: non storico, non drammatico, non commedia, non sentimentale, non filosofico né politico o sociale. A questa indeterminatezza aggiunge una trama originale e scorbutica, costellata di elementi al limite tra vero e verosimile ma quasi incredibili anche per lo spettatore più erudito, tanto anticipatori di tematiche postmoderne e contemporanee.
Anno 1914: sull'isola vive Lucia, una giovane pastorella di capre, con il padre ammalato, la madre e due fratelli ventenni. L'arrivo di un medico giovane ed idealista e la solerzia nelle cure non riescono a salvare l'amato genitore, che si spegne nella costernazione della protagonista. Questa dipartita coincide con il crescente interessamento che Lucia mostra verso un gruppo di uomini e donne nord-europei che vivono in modo eccentrico e scandaloso in alcune antiche case che stanno restaurando: prendeno il sole nudi sulle rocce, cercano scorci d'arte e bellezza danzando e tuffandosi nel mare azzurro, rfiutano la carne e parlano fra loro un idioma sconosciuto. La giovane deciderà di unirsi a loro, nello scandalo anche del rifiuto di una vantaggiosa proposta di matrimonio, emancipandosi culturalmente (imparando a leggere e scrivere accozzando inglese dialetto ed italiano) sessualmente, emotivamente. La guerra, la Grande Guerra irromperà però sull'isola, costringendo tutti ad uscire dall'aura di magico isolazionismo per affrontare invece la durezza di una realtà che impone uno schieramento. Lucia si renderà conto di non appartenere più al suo mondo arcaico, ma neppure di condividere appieno dottrine e teorie forse troppo estreme. Sceglierà l'esilio.
A questa trama principale si aggiungono suggestioni e sottotrame che potremmo sintetizzare in: Maksim Gor'kij e la organizzazione con Aleksandr Bogdanov di una scuola per rivoluzionari russi emigranti proprio a Capri; il pensiero positivista e razionalista, rappresentato dal medico; un embrione di indagine/scontro fra progresso e sfruttamento dell'ambiente (il padre della protagonista muore per una intossicazione polmonare contratta lavorando alle acciaierie di Bagnoli); la psicanalisi, l'inconscio, le pulsioni, il superuomo (rappresentato dal rito e conseguente espulsione dalla comune); il crollo dell'Impero Austro-Ungarico e la Prima Guerra Mondiale; la crisi della cultura patriarcale e contadina; la necessità di una lingua veicolare che favorisca il confronto; la forte innovazione in campo artistico: rottura degli schemi, ricerca di nuovi linguaggi (vedi nota precedente), improvvisazione, soggettività. Forse potrei avrei dimenticato qualcosa, ma si comprende facilmente come la materia sia sul serio complessa. Anche perchè, a questo, si aggiunge la necessità di ricostruzione storica - essendo il film stato girato nel 2018.
La sceneggiatura e la regia pagano questo sopraccarico: se da un lato, il richiamo del titolo è alla rivoluzione appunto - intima di Lucia, scientifica dell'arrivo dell'elettricità e della medicina, sociale ed artistica della "comune", russa dei russi, la guerra in arrivo, etc - dall'altro balena qua e là l'intento di mettere Capri, la sua bellezza ed asprezza, la sua fecondità (limoni) e povertà (i pendii ripidi e poco erbosi) al centro della narrazione: microcosmo di passioni, idee, conflitti, sole e tempesta. L'ambiente, straordinario di per sé, non riesce mai a trasmettere la propria intima anima, e viene anzi, spesso zittito dall'intento intellettuale ed in questo senso il punto di vista resta necessariamente esterno assumendo l'isola un significato diverso ed inconciliabile a seconda degli interpreti: un gruppo di uomini e donne istruiti e consapevoli provenienti dal Nord; esuli russi in assetto di guerra; abitanti di un remoto angolo di Italia; una pastorella di capre ribelle. Questa dicotomia non si scioglie mai, o meglio, è chiara nel titolo, e Capri viene pertanto appesantita da una terrificante e verbosa insistenza su tematiche intellettuali, astratte, didascaliche (il punto di vista esterno, che è quello del regista). Lasciando poco, se non zero, spazio all'empatia con il territorio e con lo spettatore che viene trattato più come un alunno da istruire che non voce libera di interpretare. Nel confronto, che occupa tutta la parte centrale, il film si perde: le dinamiche interne alla "comune" sono appena accennate (da un discussione fra il pittore e la compagna e poi nel baccanale nel bosco) mai sul serio sviscerate, a fronte invece di un eccesso di minutaggio su di balli e nudità, ribadite forse anche per ragioni estetiche, ma del tutto inutili. La presenza di Gor'Kij conclusa in un unica scena. Lo stesso dottore usato come figurina ideologica invece che come personaggio a tutto tondo. Il rapporto fra Lucia e Seybu (il capo della setta) non del tutto risolto: forse perché frettolosi sono alcuni passaggi essenziali (la giovane evolve dall'analfabetismo a discutere di filosofia in inglese con un unico fotogramma in cui sfoglia un libro) forse perchè Lucia che sarebbe la protagonista non detiene il punto di vista (non c'è mai in lei sgomento, meraviglia, confusione quanto piuttosto eccesso di comprensione. Eccesso di spiegazione) perché proprio il "santone" risulta, alla lunga, proprio l'anello debole della narrazione: vuoi per una interpretazione sotto la sufficienza di Reinout Scholten van Aschat, vuoi per un eccesso di scrittura "vera e verosimile" che invece di convincere lo spettatore, lo lascia perplesso (meglio sarebbe stato trovare una forma estetica unica e caratterizzante invece che quel look molto, troppo, figlio dei fiori). Il minutaggio che risucchia Seybu è veramente eccessivo, noioso, inutile, come eccessivo il carattere dottrinale ed esplicativo dei dialoghi. Evidente la difficoltà di storicizzazione (Martone richiama, appunto, Beuys: ma siamo parecchi anni oltre)
Karl Wilhelm Diefenbach e Fidus
Più che sufficiente la fotografia - nulla da gridare al miracolo comunque
Curato ed originale invece il "sonoro" in cui spicca una colonna sonora elettronica fatta anche di rumori e silenzi, ed un utilizzo musicale delle varie lingue. Non a caso Martone si battè per non avere i sottotitoli, pare: come se italiano dialetto tedesco ed inglese debbano assumere un senso sonoro oltre che di significato. Tra l'altro, scelta curiosa ed azzardata quella di considerare l'inglese lingua veicolare in una comunità di forte matrice germanica di inizi Novecento.
"Capri Revolution" è insomma un azzardo: non proprio riuscito. Ma stimolante. Peccato che la motivazione principale del parziale fallimento sia una certa supponenza culturale e concettuale
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