Regia di Jonas Matzow Gulbrandsen vedi scheda film
Un armamentario sensoriale di notevole potenza è messo in piedi per conferire forza ad un racconto che, purtroppo, ne è carente strutturalmente.
Una piccola barca di legno con dentro un bambino addormentato si muove in balia della corrente placida sul fiume che taglia in due una foresta fitta di piante secolari: sullo sfondo, esaltata e resa minacciosa dalle tonalità gelide della fotografia, la luna piena, che irradia il suo chiarore sulla foschia che si insinua densa tra le cime degli alberi prima di sciogliersi sul pelo dell'acqua; e in sottofondo, a suggerire la presenza impellente di qualcosa di arcaico e oscuro, un tappeto musicale d'ambiente compassato, robusto e dal respiro spettrale.
Questa immagine pittorica potrebbe già bastare a spiegare i pregi e i difetti di Valley of Shadows, film d'esordio del giovane regista norvegese Jonas Matzow Gulbrandsen, che associa il proprio evidente talento espressivo alle suggestioni visive create dalle immagini catturate dal fratello Marius (direttore della fotografia) e a quelle sonore composte dal veterano Zbigniew Preisner (una vita al fianco di Kieslowski), qui per la prima volta in carriera alle prese con algide spruzzate di elettronica. Perché questo armamentario sensoriale di notevole potenza è messo in piedi per conferire forza ad un racconto che, purtroppo, ne è carente strutturalmente.
La storia è quella del giovane Aslak e della sua paura del "mostro", suggerita da un amico che - complici le favole gotiche della cui lettura entrambi si nutrono - insinua il dubbio dell'esistenza di un licantropo in azione quando, in una notte di plenilunio, si imbattono in una manciata di pecore orrendamente massacrate: qualcosa di brutto accaduto al fratello maggiore tossicodipendente e da lui non metabolizzato, assieme la sparizione del proprio border collie, apparentemente inghiottito dalla foresta, lo convincono ad addentrarvisi a sua volta alla ricerca della ragione del proprio terrore.
Questa ricerca, sospesa tra realtà e immaginazione e condotta mantenendo una costante condizione di ambiguità, è il cuore pulsante del film, ma non basta, da sola, a tenerlo in piedi per novanta minuti. La conclusione, che oltretutto giunge bruscamente, porta con sé il rimpianto di quanto una discreta sforbiciata avrebbe potuto giovare al risultato finale.
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