Regia di Pippo Mezzapesa vedi scheda film
Provvidenza è un paese fantasma. Dopo uno spaventoso terremoto avvenuto dieci anni prima, tutti gli abitanti del paese si sono trasferiti a Provvidenza Nuova, sotto i piedi del monte. Al “vecchio” paese è rimasto solo Elia (Sergio Rubini), che abita nella sua casa rimasta illesa, a fare la guardia a ciò che resta ancora da guardare, a cercare di salvare dall’incuria totale le forme architettoniche che ancora lasciano intravedere il paese che fu. Gli unici contatti umani sono quelli con l’amico Gesualdo (Dino Abbrescia), Rita (Teresa Saponangelo), un’ex collega di lavoro della moglie defunta, e una donna sconosciuta (Sonya Mellah) che abita nascosta in una vecchia casa pericolante. A Provvidenza salgono anche i pullman con i turisti, che vengono a visitare le vestigie di un paese che non c’è più, a raccogliere cimeli da esporre come trofei, ad onorare il culto del voyeurismo a basso costo. Vive per quei luoghi e del ricordo della moglie defunta Maria Elia, incurante delle insistenze del sindaco (Francesco De Vito) che vorrebbe che anche lui abbandonasse il paese. Ma lui si batte contro la costruzione di muri che vogliono isolarlo ancora di più e contro chi vuole ricacciare nell’oblio definitivo la memoria dei luoghi.
“Il bene mio” di Pippo Mezzapesa è un film dall’anima esile che tende a dire più di ciò che sembra sull’importanza della memoria custodita dai luoghi e sui luoghi come delle entità corporee che conservano imperiture una loro autonoma vitalità. Tra le pieghe di una storia raccontata col tocco lieve della favola dolente, ci racconta dell’amore di un uomo per il paese dove è nato e cresciuto e del valore inestimabile del recupero da contrapporre a quello dell’abbandono. Un amore che non nasce dall’attaccamento fatalistico alla vita che ad ognuno è capitato di avere, ma dal riconoscimento consapevole che gli spazi che si abitano meritano di essere protetti dall’incuria del tempo e dall’inciviltà dell’uomo. Provvidenza è un paese dove nessuno ci vuole più vivere ma che è anche diventato una meta per turisti. Da ogni angolo del mondo vengono a visitare questo paese fantasma, curiosi di annusare di persona “questo tempo della memoria” che si respira in questi luoghi sottratti dalle vertigini del mondo globalizzato. Un tempo che si allinea ai salotti ambientalisti declinati in salsa folkloristica e che serve ai radical chic per ammantare di buonismo mediatico le loro sedicenti intenzioni progressiste. Un tempo che tutti sembrano voler evocare con nostalgica affezione, ma che nessuno vuole ricordare a causa di chi, come e quando è stato arbitrariamente spazzato via dalla storia.
Non saprei dire quanto Pippo Mezzapesa sia stato influenzato dalla letteratura di Franco Arminio, ma quello che mi sento di dire è che in questo film si sentono evidenti gli echi della poetica dello scrittore irpino. Il cantore della “paesologia” meridionalista che da anni se ne va in giro per i paesi più sperduti dell’entroterra, fino a penetrarli nell’autenticità della loro anima “anacronistica”, non per denunciarne semplicemente lo stato di degrado fisico e morale, ma per legare filologicamente il loro stato di abbandono all’impoverimento più generale delle coscienze. A Franco Arminio non è mai interessato il recupero del tratto oleografico di un luogo, ma il recupero della sua immortale spiritualità. Il suo è un percorso politico consapevole, che parte dal considerare quanto c’è di più sacro in ogni luogo e quanto la felicità autentica di ogni singolo cittadino non può prescindere dall’avere cura della sua prossimità spazio-temporale. Ecco, pur nella disorganicità del racconto di finzione, pur nella scelta di alleggerire i contenuti della narrazione con degli inserti favolistici che talvolta rasentano derive retoriche, Pippo Mezzapesa mi sembra si muova da quegli assunti letterari per giungere a delle riflessioni ragionate sul rapporto tra i luoghi e le persone che li abitano.
Nei luoghi ci sono depositati le esperienze di vita vissuta, loro parlano la lingua della memoria, e anche se non somigliano più a sé stessi, anche se il tempo li ha irrimediabilmente trasfigurati, conservano la facoltà di saper evocare dolci sensazioni. Elia vive un rapporto ormai totalizzante con Provvidenza, lui è di fatto il custode di un paese fantasma, ma non si sente fuori dal tempo, crede anzi che il tempo, prima o poi, farà giustizia della calcolata indifferenza degli uomini. Agli occhi dei suoi vecchi concittadini, la sua presenza in paese rappresenta il legame con un dolore troppo forte per non voler essere rimosso. La luce della sua casa è come se tenesse sempre acceso il ricordo del tragico terremoto, che insieme alle case ha distrutto anche le più belle speranze. Per gli altri, andarsene lontano ha significato la volontà di voler dimenticare più in fretta. Per Elia, invece, rimanere vuol dire esorcizzare i momenti brutti per far risaltare quelli che vale sempre la pena mettere nella giusta evidenza. Vuol dire recuperare il senso del tempo che non può e non deve cedere il passo al demone del disincanto. Perché lui è un collezionista di ricordi, un catalogatore di affetti abbandonati, un recuperatore di oggetti in disuso. Una sorta di guardiano della memoria che si erge a difesa dei luoghi dello spirito. Una bella figura di personaggio romantico insomma, che il regista affranca dal pericolo di far apparire gratuitamente ricattatorio avvolgendolo in un’aria di sognante levità. È lui a dare al film quel tocco di fascinosa alterità all’interno della coeva produzione nazionale, non sorretto adeguatamente dalle caratterizzazioni di altri personaggi di contorno, come ad esempio quella della ragazza sbucata dal nulla, della cui “misteriosa” comparsa non sono riuscito bene a capire (per un mio limite interpretativo evidentemente) la fattiva consistenza nell’economia complessiva del film. Nulla che comunque inficia in maniera considerevole la bontà dell’opera.
“Il bene mio” è un film garbato ed originale, di un autore che da sempre preferisce dare un taglio vagamente etnografico ai suoi film. Mi sembra di poterlo ricondurre alla “magistrale” lezione di Vittorio De Seta, dal quale, pur mancando della tessitura poetica che avvolge per intero la messinscena (come in un Frammartino, per esempio), ha mutuato l’attitudine continuata a dare impulso alla voce dei dimenticati.
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