Regia di Jon Avnet vedi scheda film
Un ottimo Richard Gere in un film che aveva le carte per risultare vincente e intellettualmente stimolante ma rimane in superficie. Soprattutto non trova la scintilla. Insomma, a proposito di psicologia, noi spettatori non siamo riusciti a viverlo intensamente di sentito transfert emozionante.
Ebbene oggi recensiamo Lo stato della mente (Three Christs), film del 2017 finalmente arrivato in Italia, in streaming su Infinity, a distanza di quattro anni dalla sua distribuzione, peraltro limitata, nelle sale statunitensi.
Firmato da Jon Avnet (Pomodori verdi fritti alla fermata del treno, 88 minuti, Sfida senza regole), scritto dallo stesso succitato regista assieme a Milton Rokeach, autore peraltro del libro da cui Lo stato della mente è stato tratto, ovvero I tre Cristi. Storia dell’esperimento più folle del mondo.
La trama è semplicissima, qui sintetizzata:
il dottor Alan Stone (al solito, interpretato da un eccellente, carismatico Richard Gere) è un esimio psichiatra perfino professore di legge all’università di Harvard ove occupa, per l’appunto, un importante posto cattedratico di estremo prestigio e rilievo, collaborando inoltre, in veste di presidente indiscusso, all’American Psychiatric. Nel nosocomio di Ypsilanti, ove sono internati pazienti con problemi mentali più o meno gravi, alla fine degli anni cinquanta, Stone si dà con lodabile parsimonia a una sorta di scientifico esperimento peculiarmente rivoluzionario, vale a dire sottopone tre uomini affetti da schizofrenia paranoide, in cura presso la suddetta struttura, al suo personalissimo, avanguardistico trattamento che si rivelerà, in gran parte, miracolosamente prodigioso e illuminante.
Clyde (Bradley Whitford) è un alcolizzato, Joseph (Peter Dinklage) è uno scrittore che giammai riscontrò il successo agognato e sperato, ospedalizzato, per meglio dire istituzionalizzato, a causa di sue furibonde, continue e irreprimibili violenze domestiche, mentre l’ultimo dell’anomalo, affascinante e “pazzoide” terzetto è rappresentato da Leon (Walton Goggins), reduce della Seconda Guerra Mondiale e fallito seminarista. Tutti e tre, sebbene possiedano vissuti apparentemente diversi, perlomeno assai dissimili, in verità sono accomunati, tralasciando l’interiorità complicata e intimissima dei conflitti emotivi delle ramificate e problematiche, stratificate patologie psichiche da loro rispettivamente sviluppate, da un basilare elemento in comune piuttosto evidente a chiunque, anche agli occhi e alla mente di chi non necessita certamente di un’eminente laurea in materia psichiatrica, cioè credono di essere Gesù Cristo, indistintamente.
Attraverso psicanalitiche sedute lontane dai banali, inutili, superflui e soprattutto controproducenti colloqui, anzi, violenti elettroshock vetustamente aderenti a ortodosse metodologie psicologiche ampiamente superate, oltre che per l’appunto sconvenienti, il dottor Stone riuscirà, come detto, a ottenere la sommaria guarigione dei suoi tre pupilli, diciamo. In effetti, forse non riuscirà a sanarli del tutto, perlomeno tenterà di comprenderli profondamente e, di straordinario transfert umanissimo, parzialmente li riabiliterà forse alla normalità?
Ma la normalità qual è? Esiste davvero ed è questa che Stone desidera dai suoi “malati?”.
È questa la domanda potente, enigmatica e decisamente, positivamente ambigua che racchiude il senso de Lo stato della mente.
Un buon film, sebbene non eccelso, purtroppo sottovalutato dalla Critica d’oltreoceano. Infatti, negli Stati Uniti fu stroncato sonoramente e fu visto da pochissimi.
Il film vale, più che altro, per un inedito Richard Gere. Ancora una volta in un ruolo impegnato dopo essere stato protagonista del meraviglioso Gli invisibili. Lo stato della mente però, dopo un inizio dagli sviluppi interessanti, dopo una prima mezz’ora abbastanza incalzante, si perde lentamente per strada, non trova mai davvero una scintilla ispiratrice e procede lungo binari alquanto ripetitivi e leggermente soporiferi. E la fotografia di Denis Lenoir, in altri frangenti efficace e d’atmosfera, risulta qui troppo virata al monocorde, visivamente parlando, colore seppia. Piatta come un film affascinante ma privo di snodi narrativi appassionanti.
di Stefano Falotico
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