Regia di Daniele Vicari vedi scheda film
"È un racconto che non vuole rivelare fatti, nomi o segreti, ma che ricostruisce il filo dei dettagli che si erano perduti, le risate di petto di Giuseppe Fava, le sue improbabili partite a pallone, la sua idea sfacciata e rigorosa di giornalismo, la nostra idea scapigliata di quel mestiere, fino all'irrompere della morte"
“Io ho un concetto etico del giornalismo, ritengo infatti che in una realtà democratica e libera quale dovrebbe essere quella italiana il giornalismo rappresenti una delle forze essenziali della società. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza, la criminalità, accelera le opere pubbliche essenziali e il funzionamento dei servizi sociali, tiene costantemente allerta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione sulla giustizia, impone ai politici il buongoverno.”
Così Giuseppe Fava, detto Pippo, scrittore e giornalista, morto per mano di mafia nel 1984 a Catania.
"La questione della libertà di stampa è tornata con urgenza al centro del dibattito pubblico e con essa la necessità del giornalista di svincolarsi da condizionamenti sempre più potenti e pervasivi. È per questo che la vicenda umana e professionale di Pippo Fava, che intorno al giornale da lui fondato, I Siciliani, ha formato una nuova generazione di giornalisti, mi è parsa esemplare e commovente, in grado di disegnare una prospettiva e un futuro. Cose di cui oggi più che mai abbiamo bisogno".
Così Daniele Vicari, regista di Prima della notte, docu-film dal libro di Claudio Fava e Daniele Gambino, nel 2018.
2022, quattro anni dopo, pandemia, guerre, crisi energetica, crisi economica, varie ed eventuali: il tema dei “condizionamenti sempre più potenti e pervasivi” che la stampa subisce (e molto spesso accetta) è sempre all’ordine del giorno, anche se di mafia oggi si parla poco.
Ma cosa diceva Pippo Fava in un’intervista a Enzo Biagi quattro giorni prima della morte?
“Non si può definire mafioso il piccolo delinquente che arriva e ti impone la taglia sulla tua piccola attività commerciale, questa è roba da piccola criminalità.Il fenomeno della mafia è molto più tragico ed importante. I mafiosi stanno in Parlamento, i mafiosi a volte sono Ministri, i mafiosi sono banchieri, i mafiosi sono quelli che in questo momento sono al vertice della nazione…”
In Italia uno come Pippo Fava doveva morire, e infatti nel 1984 è morto ammazzato.
Uomo di teatro, di letteratura, intellettuale prestato al giornalismo per poco, ma quanto basta per gettare un seme, era tornato a Catania da Roma dove aveva raccolto successi e grande prestigio.
Ma Catania era il suo paese, la famiglia, un po’ zoppicante ma pur sempre famiglia, due figli grandicelli e una moglie che lui rispettava, ma così va, a volte ci si lascia dopo troppi anni insieme.
Catania però non si lascia, mani sulla città ce ne sono, e molto sporche, colluse con le istituzioni, cento morti l’anno, incaprettati, coperti di cemento, ma tutti quelli che contano a dire che lì la mafia non c’è, è a Palermo, noi no, per carità.
Bene, dice Pippo, allora il Simeto (fiume che separa le due provincie), è una specie di linea gotica, di qua il malaffare, di là tutti onesti.
“Noi non siamo Palermo” era il grido dei benpensanti.
Certo, Falcone e Borsellino a Catania sarebbero ancora vivi (e questo lo aggiungiamo noi).
Pippo non ci sta e collabora alla direzione di un giornale locale. L’untuoso editore lo avverte, i suoi articoli non vanno, sempre a parlar male di tizio e caio, sempre a colpire, non si fa!
Lo licenziano.
Lui ne fonda uno suo, autofinanziandosi e riempiendosi di debiti. Una redazione di giovani, compreso il figlio Claudio, sempre preoccupato per il padre ma deciso a stare con lui. Ragazzi gagliardi, i suoi “carusi”, che non si tirano indietro, che continueranno sulla sua strada anche dopo.
Dopo cosa? Dopo Cosa Nostra.
Come da copione gli mandano avvertimenti, tentano di comprarlo, lanciano in redazione una bomba carta, qualche altro segnale non manca.
Infine lo ammazzano, in macchina, una sera di gennaio 1984, davanti al teatro Stabile, dove andava a prendere la nipotina che recitava.
Due colpi di pistola, il finestrino in mille pezzi, lui scompare sul sedile. La scena apre il film e torna in chiusura.
Tragica, fulminea, devastante.
Quasi vent’anni dopo, nel 2003, la Corte di Cassazione condanna all’ergastolo Nitto Santapaola e Aldo Ercolano come mandanti dell’omicidio e infligge sette anni patteggiati al reo confesso Maurizio Avola.
Vicari trae il meglio da Gifuni, protagonista; i “carusi”, la moglie, i figli, co-protagonisti, sono un team forte, motivato, calato nella forza di crederci, nonostante tutto, che distinse in quegli anni i veri attori della storia.
La città è piena di sole, anche d’inverno, di granite con panna e di una gioia di vivere che fa da scudo al malaffare sotterraneo che scava e corrode.
Il giornale, poi mensile, di Pippo, I Siciliani, si vende, la gente vuol sapere, la maggioranza è, sì, silenziosa, ma anche perché non trova una voce che parli per lei. Ora le cose possono cambiare, bisogna solo accettare il rischio e non cedere alla paura.
Pubblicità no, non ci sono imprenditori disposti a finanziare chi è contro i padroni, ma non importa, Pippo accetta, potrebbe tornare a Roma, vivere una vita agiata e tranquilla. Non lo fa. Il bisogno di raccontare la verità è il suo imperativo morale, il suo credo politico.
Giuseppe Fava e Giuseppe Impastato sei anni prima, Catania e Palermo unite in un abbraccio mortale. Capitali della mafia in una Sicilia pervasa ovunque dalla tristezza profonda di chi vive in un Paese stupendo e corrotto, che priva della libertà più elementare, quella di essere felice.
Prima che la notte è il titolo che Claudio Fava e Daniele Gambino hanno dato al libro scritto nel 2014 per ricordare il padre e, soprattutto, quei “carusi” che, in una notte, diventarono adulti.
“Questo libro non è un noir su un delitto di mafia e nemmeno il canto a lutto per la morte di un uomo. Di Giuseppe Fava, delle ragioni per cui la mafia volle colpirlo, dell'infinito e miserabile reticolo di silenzi, compiacenze e connivenze che protesse i suoi assassini, molto è stato scritto. Poco, invece, è stato scritto su quel gruppo di carusi che nello spazio di una notte si ritrovarono subito adulti, invecchiati, con lo sguardo ferito, l'innocenza smarrita. Quella morte mai abbastanza annunciata fu la fine della nostra giovinezza, senza più alibi, senza rinvii. Non avevamo avuto il tempo di essere preparati, ci sentivamo stolti e felici, spavaldi e immortali, eravamo Patroclo, Achille, Ettore, eravamo ancora tutte le vite che avremmo potuto vivere e poi, di colpo, ci scoprimmo orfani che dovevano crescere in fretta, soldati anche noi, reclute sbandate al primo scontro col nemico. Eravamo stati inconsapevoli: dunque, colpevoli. Questo libro - scritto a quattro mani racconta quei giorni, quei ragazzi e l'uomo che li tenne a battesimo nella vita. È un racconto che non vuole rivelare fatti, nomi o segreti, ma che ricostruisce il filo dei dettagli che si erano perduti, le risate di petto di Giuseppe Fava, le sue improbabili partite a pallone, la sua idea sfacciata e rigorosa di giornalismo, la nostra idea scapigliata di quel mestiere, fino all'irrompere della morte, ai pensieri e ai gesti che si fanno improvvisamente adulti, densi, necessari”.
Estratto dal libro
www.paoladigiuseppe.it
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