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I famelici

Regia di Robin Aubert vedi scheda film

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La recensione su I famelici

di mck
8 stelle

Buon film che parte come un b-movie a tratti farsesco e pian piano si trasforma in un'opera serissima e semi-sperimentale.

 

Totemizzanti, avanguardisti, meditanti, idolatranti rabbiosi zombie disposofobici creatori e accumulatori di trash art. 

 

 

Scritto e diretto da Robin Aubert (che alla carriera di regista e sceneggiatore - "Saints-Martyrs-des-Damnés", "À quelle heure le train pour nulle part", "À l'origine d'un cri", "Tuktuq" - affianca quella recitativa, ma non in questo caso) - con la fotografia di Steeve Desrosiers (semi-esordiente nel lungometraggio) e il montaggio di Francis Cloutier (fino ad ora sceneggiatore, attore e regista) -, “les Affamés” è una via di mezzo tra varie saghe Zombie & C.: l'originale, mitopoietica, costitutiva, archetipica e primigenia esalogia cinematografica del padre fondatore George A. Romero, nello specifico con un pensiero preciso a quei film in cui i non più morti iniziano a manifestare segni di intelligenza residuale e d'apprendimento e a mostrare cenni evolutivi di organizzazione sociale (Day, Land e Survival of the Dead), il dittico iniziato con “28 Days Later” di Alex Garland & Danny Boyle che non riuscì a trasformarsi in una trilogia (dopo Days, Weeks, ma senza Months), per quanto riguarda l'innovazione della velocità applicata ai soggetti defunti, affamati e cannibali, e le due serie narrative di David Moody, “Autumn” e “Hater” (il cui unico volume tradotto in italiano è questo Urania) con, in più, un innesto ulteriore: “Pontypool” di Bruce McDonald: il linguaggio è un virus (ma il suo intervento sulla realtà delle cose così come sono in divenendo è più materia di “Arrival” con l'Ipotesi di Sapir-Whorf), ma pure l'arte concettuale (sintomi? avvisaglie? segnali?) non scherza. 

 

[Tra la fioritura dell'asteracea Solidago canadensis compaiono Torri di Babele gutturali.]

Perché si, è vero che i rabbiosi e famelici non più cadaveri deambulano con scatti da centometrista, m'al tempo stesso a tempo perso erigono installazioni d'arte povera a guisa di pietra miliare mnemonica e ricordo di casa condiviso e collettivo come se fossero dispersi s'un pianeta sconosciuto, che li ha traditi e trasformati, e s'aggrappassero a quella significante e simbolica (e diagnostica) zavorra sotto forma di meme reminiscente (manufatti ready made d'uso comune resi prima spazzatura dagli eventi e poi riciclati ad object trouvé attraverso un atto inconsapevole d'intervento “artistico/religioso”) come a un rimpianto, un salvagente, una nostalgia, un appiglio, un altare, un focolare. 

 

["Personnes" di C.Boltanski]

["Dirty White Trash (with Gulls)" di T.Noble & S.Webster]


Si pensi al minimalismo sentimentale di Christian Boltanski riscontrabile in opere come “Dispersion” e “Personnes” (a proposito del quale l'autore dice: “È un lavoro sulla casualità della morte. Vedo un indumento [o un oggetto, NdR] come l'equivalente di un corpo. È come una fotografia di qualcuno, il suo battito cardiaco. È un oggetto che ti ricorda un soggetto che non c'è e sottolinea la sua assenza. Il mio lavoro ruota attorno all’individuo e al gruppo. La vera problematica della mia opera è l’importanza di ogni individuo, questa grande massa di persone e la loro scomparsa”), o ancora, in zona “Annihilation” di Alex Garland / Jeff VanderMeer, a “Trash People” di Ha Schult (“La spazzatura è il tema della nostra epoca. Viviamo nel pianeta-spazzatura Terra, produciamo spazzatura e diventiamo spazzatura. Così sono le Trash People, le mie mille sculture, con le quali dal 1996 mi sposto nel mondo”) e “Dirty White Trash (with Gulls)” di Tim Noble e Susan Webster

 

[Serie "Trash People" di Ha Shult]

 

Le strade degli 8/10 personaggi principali (Marc André Grondin, Monia Chokri, Brigitte Poupart, la piccola ed esordiente Charlotte St-Martin, etc...: bravissimi, tutti) - si entra in empatia con essi subito poco prima della di lor'ognun o quasi fine -, svuotate di umanità da un'epidemia di rabbia vorace e insaziabile, di mossa in mossa convergono, quand'ecco che, giusto il tempo di compiere qualche passo assieme, divergono: questa la strana, e mano a mano sempre più coinvolgente, costruzione del film, che parte come un b-movie a tratti farsesco e pian piano si trasforma in un'opera serissima e semi-sperimentale (grande utilizzo della colonna sonora originale di Pierre-Philippe Côté e ottimo lavoro di sound design ad opera di Olivier Calvert, già al lavoro sulle astronavi aliene di “Arrival”...). 

 

[Carl Hammoud - "the Protest" - 2013 - olio su tela]

 

(E come non riandare con la memoria alla "post-apocalisse" messa in scena da Eugène Ionesco nel 1952 con "Les Chaises".]

 

La scena post-titoli di coda è posta giustamente...dopo i titoli di coda (aufuga imitazione, quindi, quella dei famelici, e non capacità semi/pseudo-razionale di creare sovrastrutture (im)portanti?).
Resta invece maggiormente impressa nella memoria l'immagine di un ragazzino, all'inizio della storia, rimasto a nascondersi arrampicato s'un albero (se dico “Tremors” voi capite, vero?).
Doppiaggio italiano (by Netflix Italia?) più che sufficiente.

* * * (½) ¾  

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