Regia di Alice Rohrwacher vedi scheda film
Dopo il passo falso delle “Meraviglie”, Rohrwacher finalmente centra il bersaglio con un’opera complessa e intrigante, che suggerisce svariate ipotesi interpretative senza prestare il fianco a facili letture. E’ fondamentalmente una favola, ambigua e sfuggente, innestata sul corpo di un racconto realistico. Setacciando luoghi come il De Sica di “Miracolo a Milano” o il Citti del “Minestrone”, passando ovviamente per l’immancabile Pasolini con pure qualche traccia dei Taviani, la regista compone un’opera fantasiosa che non abbandona mai l’approccio realista (i personaggi parlano sempre il dialetto e si comportano in maniera prosaica, anche nei momenti più “mistici”; l’immagine aerea ed herzoghiana della natura si rivela una soggettiva dell’elicottero dei carabinieri; la fiaba raccontata dalla voce off di Antonia non è un flusso di coscienza malickiano, ma proviene da una fonte localizzabile con precisione); allo stesso modo, la realtà di tutti i giorni è costantemente ammantata da un sostrato favolistico (i padroni rappresentati come malvagi regnanti; i contadini che soffiando generano un vento irreale alle spalle del viziato rampollo; la fuga di quest’ultimo nella natura aspra). La dialettica fra trascendenza ed immanenza si risolve quindi in una compresenza di entrambe le dimensioni.
La struttura bipartita, col momento estatico, esattamente a metà film, che segna il passaggio dalla dimensione rurale-arcaica (quella prediletta dalla regista, fin dal suo primo film) a quella metropolitana-moderna, apre per svariate e stimolanti letture allegoriche. Il tempo passa, la civiltà si evolve, gli sfruttati restano sempre gli stessi, solo più vecchi. Caporalato, ignoranza, marginalità, sottomissione, miseria sono costanti nella Storia, deja-vu che si ripropongono beffardamente uguali a se stessi, solo in una nuova ingannevole veste. L’ironia di Rohrwacher e i suoi trasparenti riferimenti al presente culminano nella geniale sequenza dell’asta al ribasso, per il costo del lavoro. In tutto questo, una figura si distingue dalle altre ed è ovviamente quella del protagonista Lazzaro, novello Nazarin o Balthazar, il “buono” per eccellenza, figura dai connotati metafisici eppure radicatissima nella sua terra e fra la sua gente. Lazzaro è l’irrazionalità del Bene, l’impossibilità dell’altruismo, l’irrealizzabilità della fratellanza. Non a caso, è indistruttibile, non muore e rimane eternamente giovane: è una figura che non può esistere, se non come proiezione passiva degli istinti oppressivi dell’umanità o come fantasma di bontà, angelo sterminatore alla rovescia. Il suo martirio definitivo, in quella banca che è sineddoche di un nuovo aberrante potere, ad opera di una folla inferocita di gente qualunque (entrambe chiare allusioni ad un certo clima strisciante nella società d’oggi), rappresenta il momento di massima aderenza fra realtà e favola: il lupo, costante poetica e criptico simbolo per tutto il film, si libera in una catartica ed imperiosa cavalcata fra le brutture cittadine.
Non tutto fila in questo film, senz’altro imperfetto: al di là di alcune scorie ed indecisioni, alcuni passaggi oscuri o gestiti con approssimazione (la figura di Tancredi adulto, ad esempio; o quella del figlio di Antonia), una prima parte un po’ troppo sciatta, si registra la trattazione poco approfondita della tematica inerente ai “media”, che invece rivestiva un ruolo non secondario nei due precedenti film. Da questo punto di vista, è interessante notare il riflesso condizionato con cui Antonia e Lazzaro rielaborano l’articolo di giornale che parla della truffa ai loro danni, quel “grande inganno” a cui si riferisce Lazzaro rivolgendosi alle banche e i cui esiti guidiziari sono ripetuti “in playback” da Antonia: uno dei tanti spunti ambigui, certamente irrisolti, ma affascinanti del film. Fatta la tara a limiti e difetti, resta intatto il valore sia emozionale sia intellettuale di un film che indovina un tono onirico e surreale del tutto peculiare e che invita lo spettatore a guardare al presente da prospettive diverse.
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