Diceva, pressapoco, Alice Rohrwacher che "al cinema spetta il compito di raccontare ciò che le parole non riescono a dire", con ciò assegnando alla Settima Arte la funzione di rito propiziatorio con il quale il regista tenta di fare luce sulla bellezza del creato. Una dichiarazione d'intenti di cui "Lazzaro felice" è al tempo stesso verifica - nella maniera in cui si dirà - e anche contraddizione, per la scelta della giuria del festival di Cannes di assegnarli il premio, ex aequo, per la migliore sceneggiatura. Una decisione, quest'ultima, meno peregrina di quello che si possa pensare, se è vero che nella stesura di un copione a prendere vita non sono solo la trama e i suoi personaggi ma anche le immagini le quali, proprio sulla carta e nella scrittura, vengono alla luce in una forma primordiale di composizione.
Ed è proprio la presenza dell'oscurità e il progressivo disvelamento delle cose a fungere ancora una volta da punto di partenza dell'opera: come già capitato in "Corpo celeste" e poi ne "Le meraviglie", la sequenza iniziale, quella che introduce alla fabula, è infatti caratterizzata dal buio, la cui ricorrenza (secondo la regista) altro non è che il modo più dolce per manifestare l'epifania del mondo - qualunque essa sia - senza il quale si rischierebbe di rovinare i tesori in essa contenuti. E di meraviglia si tratta, perché al centro della scena - il cortile di una casa colonica offertoci in campo lungo - scorgiamo per la prima Lazzaro/Tardiolo, il protagonista del film, solo in apparenza integrato con il resto del consorzio umano - una famiglia contadina il cui legame di parentela con il ragazzo non è specificato - in realtà estraneo al contesto per via di una mitezza e di una bontà che ne fanno allo stesso tempo figura troppo umana e identità simbolica, destinata ad attraversare la vicenda come contraltare alla Storia altresì sovente segnata dalla rapacità. Una tendenza quest'ultima, che la Rohrwacher con mano felice individua sia nella prima parte del film, quella dedicata alla dimensione agreste dell'esistenza e di conseguenza a una struttura economica fondata sulla mezzadria e sullo sfruttamento della mano d'opera da parte dei proprietari terrieri (nello specifico la marchesa Alfonsina De Luca interpretata dalla Braschi), sia nella seconda, quando "Lazzaro felice", previo scarto narrativo, ipotizza di lasciarsi indietro la natura idilliaca e arcaica del viterbese e del ternano (Castel Giorgio) per approdare in un ambiente che si identifica con l'archeologia industriale di un grande agglomerato urbano (Torino) dove, reiterando il medesimo meccanismo di sopraffazione, ai contadini si sostituiscono gli immigrati e la povera gente.
Detto che, così facendo, "Lazzaro felice" mette in scena quella che potrebbe essere una rielaborazione della Storia d'Italia vista attraverso l'ingenuità e la purezza del protagonista, ciò che colpisce è il lavoro compiuto dall'autrice sul paesaggio nostrano, riletto in chiave realistica e insieme mitologica alla maniera dei vari Pietro Marcello e Matteo Garrone e, per dire, dello stesso Guadagnino. In particolare, se per un momento dimentichiamo i riferimenti classici (Olmi, Pasolini etc.) e ci concentriamo su esempi più recenti, osserviamo che "Lazzaro felice" si inserisce in un solco scavato da opere quali "Bella e perduta" (con Lazzaro che alla pari di Pulcinella attraversa un mondo in trasformazione rimanendo sé stesso) e soprattutto "Dogman", al quale il film della Rohrwacher si ricollega, non solo per la trasfigurazione dell'ambiente e per la dialettica che esso instaura con l'uomo, ma per la corrispondenza tra le diversità di Marcello e di Lazzaro, entrambe contraddistinte da un anelito che il prossimo rifiuta, anzi punisce.
In questo senso, ad aiutarla concorre da una parte la fotografia materica di Hélèn Louvart, di fatto coautrice della filmografia della regista per averne condiviso tutti i progetti e capace di armonizzare nella rappresentazione della quotidianità contadina pittura italiana e documentarismo pedagogico; dall'altra, la scelta di un protagonista in grado di incarnare senza alcuna reticenza un patrimonio espressivo oramai compromesso se non del tutto scomparso in un generale orizzonte emotivo improntato a una compiaciuta aridità. In effetti, il rischio per un film del genere può essere proprio questo, vale a dire il fatto di non essere apprezzato per via di un retaggio sentimentale e passionale tanto plateale quanto intransigente a cui comunque non si ha intenzione di rinunciare.
In concorso al Festival di Cannes, "Lazzaro felice" segna un altro passo in avanti dell'autrice toscana, oramai a pieno titolo tra i nostri autori più bravi.
(pubblicato su ondacinema.it)
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