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Revenge

Regia di Coralie Fargeat vedi scheda film

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La recensione su Revenge

di scapigliato
9 stelle

Non confondiamo un buon revenge movie, o meglio ancora un rape and revenge, con l’ondata giustizialista del #metoo. Intendiamoci: che gli uomini siano stati da sempre legittimati ad usare/abusare della donna perché la cultura dominante, soprattutto di matrice religiosa, glielo permetteva, e che ora finalmente questa barbarie sta cominciando a scricchiolare, è una tappa importante del processo di emancipazione dell’essere umano dalle ideologie fondamentaliste, siano esse religiose, politiche, consuetudinarie, etc. È anche vero, che come ogni animale ferito e morente, anche l’uomo machista sta reagendo disperato a questo cambio culturale: si intensificano i reati, aumenta la propaganda social di tipo fascista, ma sono le ultime zampate di un animale morente. Dopotutto, da anni ripeto che il machismo è l’estetica del fascismo, mentre la virilità maschile è la poetica dell’uomo vero, quello originario, primitivo se vogliamo, lontano anni luce dai retrosexual o altri aborti sociali contemporanei. Nonostante questo, il #metoo ha creato i suoi mostri giustizialisti. Non si può dire più nulla, non si può più guardare una bella ragazza, non si può più fare una battuta che vieni subito additato. Una frase, di tutt’altro contenuto, viene fraintesa, come successo ad Adriano Celenteno in un episodio del suo Adrian (2019). Una caccia alle streghe al contrario: una caccia allo stregone, o all’orco, insomma. Ci vuole sempre buon senso e quel pizzico di intelligenta e superiorità delle parti per poter evitare le etichette ingombranti di femminismo o maschilismo.

In questo, per esempio, riesce benissimo Coralie Fargeat con il suo personalissimo Revenge. Con una fotografia satura di colori pop, una messa in scena altrettanto satura di oggetti, mobili, vestiti, accessori tipici della cultura del consumismo, e una scelta ambientale, il torrido deserto del Sudovest americano, dove si annullano i ruoli sociali e prevale l’istinto e l’animalità, ma in cui emerge anche e soprattutto la bellezza della ferinità della natura sorniona davanti alla tragedia umana, la regista confenziona un ottimo prodotto estetico che, se anche inciampa in qualche passaggio narrativo azzardato, non perde mai di potenza visiva né narrativa.

Tra Harmony Korine e il The Reach di Jean-Baptiste Léonetti (2014), la Fargeat rompe ogni schema e sposta la linea politica dell’attuale scontro tra mondo femminile e maschile all’estremo. Pur non essendo un film #metoo, perché non è didascalico né buonista, bensì tutt’altro, Revenge è un buon rape, se non addirttura ottimo. I tre uomini bianchi sono caratterizzati secondo uno stereotipo degenerato dei tre porcellini: il maschio alfa, bello e muscoloso (Kevin Jansens), il bruttino e represso e libidinoso come un cagnolino in calore (Vincent Colombe) e lo smidollato parassita grassottello che pensa solo a mangiare schifezze e dipende totalmente dalla volontà altrui (Guillaume Bouchède). Un po’ il frullato della peggior America ed Europa mascolina, da cui sono tenute fuori altre tipologie di maschio occidentale, la famosa maggioranza silenziosa.

L’abuso che questi uomini fanno della sfortunata protagonista, bellissima e seducente davanti alla quale davvero non ci si potrebbe più controllare (Matilda Lutz) è un abuso animalesco, leggittimato dal loro essere maschi, per cui tutto gli sarebbe dovuto; potenziato ed istigato dalla bellissima location desertica, ferale e selvaggia che permette l’emersione dell’animalità incontrollata del peggiore degli animali sulla terra, l’uomo. Inoltre, la regista non ci dipinge una protagonista totalmente innocente, bensì una ragazza che vuole e sa divertirsi, una lolita conturbante che conosce le sue arti seduttive e gioca con gli uomini per puro piacere. È provocante nel modo di vestirsi, di guardare chiunque, di utilizzare oggetti soprattutto fallici per istigare la libido. È la tipica ragazza tacciabile di “se l’è cercata”. Questo è un colpo di genio della regista perché l’atto barbarico e non perdonabile è e rimane sempre la convinzione dell’uomo di poter fare quello che vuole con una donna. La colpa non è essere provocanti, la colpa è credersi in potere di usare/abusare della donna come e quando si vuole, come la società maschilista e patriarcale vorrebbe perpetuare. È un colpo di genio perché al netto della violenza subita, Matilda Lutz non appare proprio innocente. Ma questo dà il diritto all’uomo di violentare, torturare e uccidere una donna o un altro essere umano? No.

L’uomo che vuole dominare la donna abusandone è in realtà un uomo frustrato, sessualmente represso o disfunzionale. Forse non ha erezioni, forse eiacula presto, forse è minidotato, oppure è umiliato sul lavoro, nel gruppo degli amici o nel gruppo di calcetto. Forse è quell’uomo che quando passa una bella macchina la guarda e sa che non può comprarsela, e allora guarda la moglie, la figlia, o la prima bella ragazza che passa per strada e decide di scaricare su di loro tutta la sua frustrazione, il suo sessismo, il suo razzismo. È un piacere quindi, sia visivo che morale, vedere i tre bastardi morire uno ad uno in modi sempre terribili e sofferenti, torturati e umiliati da quella ragazza che per loro era soltanto un corpo-oggetto, quasi un trofeo di cacccia. Difatti, non è un caso che i tre si fossero riuniti per una battuta di caccia, tanto quanto il Douglas di The Reach. Lo sfoggio delle simbologie machiste, senza condannare totalmente la caccia e il suo ruolo calmierante là dove è regolamentata e dove fa parte della cultura locale, trova proprio nella caccia e nei suoi reconditi meccanismi un parallello della libido sessuale disfunzionale.

L’apoteosi è l’atto finale. Kevin Janssens che gira nudo per casa in un corpo a corpo con la vendicatrice Matilda Lutz. Lui, imbrattatto di terra e sangue, nudo, con il suo corpo muscoloso, fibrato, da cui ciondola un misero pene e lei mezza nuda, ferita, risorta e armata, si inseguono in interni domestici. Abbandonata la natura selvaggia del deserto, lo scontro finale è tra le mura di casa, luogo purtroppo prediletto per le violenze, gli abusi e i femminicidi. Ma qui le cose girano diversamente. La nudità machista di Janssens è anche la sua debolezz. E la fine, prevedibile, è nota.

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