Regia di Aitor Arregi, Jon Garaño vedi scheda film
La seguente recensione è la stessa di Errementari (Paul Urkijo, 2017), in cui parlo anche di Handia.
El herrero y el diablo, il fabbro e il diavolo, dice il sottotitolo castigliano del film vasco diretto da Paul Urkijo Alijo e presentato da Álex de la Iglesia che, in terra di Spagna, è un po’ come Tarantino, produce e presenta film bizzarri, audaci e rischiosi sia sul piano visivo che narrativo, e che nessuno si azzarderebbe mai a realizzare. Errementari è quindi una favola, una favola nera, che già in nuce dichiara chi sono i personaggi simbolici di questa storia: un fabbro accusato di essere il diavolo in persona e che vive isolato nel fitto e uggioso bosco vasco, tra nebbia e grandi alberi secolari, e il diavolo, o meglio un demone, un diavolo dell’inferno, fatto a somiglianza della credulità popolare, tutto rosso, asessuato, mento e naso aguzzi, corna caprine, coda che termina con la classica freccia e armato del classico forcone; quasi una caricatura.
Eppure non ci troviamo di fronte a un film di bassa lega, povero di finanziamenti e di origine amatoriale. Siamo invece al cospetto di un film che proprio grazie alle idee rappresentative dei suoi autori ha voluto riportare sullo schermo il fascino di un racconto nero, di uno di quei racconti del folklore popolare e appartenente alle leggende delle comunità rurali che tra religione e radici pagane conservano la magia del mistero e della sua narrazione. Tale è la scelta di concretizzare il demone con un costume di lattice, attingendo alle concezioni medievali della figura diabolica tipica dantesca, copiandone le sembianze dalle illustrazioni barocche. Così, immerso in un contesto visivo pregno di simboli, colori e personaggi oscuri che ammantano di terrore l’intera storia, l’arlecchinesco demone tutto rosso, a metà strada tra il Creeper e Freddy Krueger, sembra essere un depistaggio estetico, la crepa sottile pronta a fare crollare tutto l’impianto artistico. Eppure, questo feroce contrasto tra il posticcio diavolesco e il lirismo del realismo magico ci addentra davvero in un racconto popolare di quelli che si raccontano intorno al fuoco; anzi, di più: lo rappresenta davanti ai nostri occhi.
Esattamente come in Handia (Arregi/Garaño, 2017), la terra vasca diventa lo scenario del magico e del favolistico, sostituendo con successo la Galizia, terra spagnola eletta per il misterioso e il terrorifico con le sue storie di uomini lupo, streghe e la Santa Compaña. La terra vasca invece, dopo le lacerazioni terroristiche dell’Eta, che cinema e tv continuano a raccontare, ha riscoperto il gusto per la narrazione favolistica, magica, terrorifica che già si era vista in Las brujas de Zugarramurdi (Álex de la Iglesia, 2013).
Cos’hanno in comune Handia e Errementari? Hanno in comune, oltre alle contiguità di genere, due aspetti fondamentali utili a riaffermare che dopo il successo internazionale di Loreak (Garaño/Goenaga, 2014) il cinema vasco ha trovato la sua strada per raccontare la propria storia, il proprio paesaggio e la propria lingua con grandezza e intimismo poetico. Entrambi i film sono girati in euskera, ma non quello attuale, bensì quello di inizio ottocento, perché entrambe le storie sono ambientate all’epoca delle guerre carliste, e questo è il terzo elemento in comune. Difatti, le guerre carliste segnarono la fine della libertà vasca e di conseguenza rivangare quel passato in chiave fantastica o orrorifica ha delle ovvie connotazioni anche politiche. Il recupero della lingua, non solo attuale, degli scenari, delle tradizioni e del folklore sono la prova di una efficace interconnessione del nuovo cinema vasco con la propria terra.
In Errementari, come in Handia, il paesaggio è fondamentale per contestualizzare una storia dalle forti radici rurali, una storia saldamente radicata nella propria terra, di cui la lingua è universalmente il primo aspetto identitario. Anche l’epoca prescelta, quella carlista, non è certo un caso. Tra la prima e la seconda guerra carlista i Paesi Vaschi soffrono la fame e la povertà, il dominio dell’oscurantismo religioso e la decimazione dello stesso popolo vasco che rischiò l’estinzione. Quindi: terra, lingua, storia sono i cardini su cui Errementari e Handia fissano i loro nuclei narrativi e le loro urgenze intellettuali, sociali e politiche.
Se però Handia, raccontando la vera storia di Migel Joakin Eleizegi Arteaga, il famoso gigante di Altzo, rasenta il fantastico per messa in scena e impianto visivo, Errementari è un vero e proprio racconto horror, goticheggiante e con tratti esperpentici, dove il punto di vista di una bambina, come appunto genere vuole – basti guardare El espinazo del diablo (2001) o El laberinto del fauno (2006), entrambi di Guillermo del Toro – è lo sguardo affascinato, impaurito e allo stesso tempo incuriosito e affamato del lettore o spettatore di narrazioni horror, in cui ricercare attraverso le iconografie e i moduli narrativi simbologie e interpretazioni recondite, ma sempre eterne ed universali. Il film si fa infatti pregio di giocare molto con il genere utilizzando una messa in scena sporca e triste per raccontare i Paesi Vaschi dell’epoca, ma anche lo strato sociale da cui certi racconti e certe paure potevano nascere. La bambina che si avventura nel bosco al di là dei limiti consentiti, la figura enigmatica e mefistofelica del fabbro, le spedizioni notturne con fuochi e forconi: in Errementari c’è tutto il gotico spagnolizzato e quindi risemantizzato con cui rimodellare un genere classico e farlo proprio per raccontare, ancora una volta, la propria terra tra identità e contestazione. Dopotutto, l’horror è il genere più politico che esista.
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