Regia di Aitor Arregi, Jon Garaño vedi scheda film
La vera storia di un "gigante". Un racconto di banale durezza, come tutte le fantasie che decidono, crudelmente, di diventare realtà.
Un gigante. Questa è la storia di un mondo che finisce quando perde il senso della grandezza, sia l’abitudine alla sua presenza, come fantastica diversità, sia lo stupore nel riscoprirla, come se le favole non ne avessero mai parlato, e fosse una novità mai vista. Joaquín Eleizegui era un ragazzo basco, vissuto intorno alla metà dell’Ottocento: un figlio di contadini, l’abitante di un villaggio, un ragazzo scampato per caso alla guerra civile, e divenuto suo malgrado una leggenda internazionale. Una malattia, contratta all’età di vent’anni, scatena in lui l’acromegalia, uno scompenso ormonale, che, in breve tempo, lo fa crescere oltremisura, trasformandolo in un colosso di quasi due metri e mezzo d’altezza. Joaquín è un mostro, un fenomeno da baraccone, destinato a diventare ricco e famoso, nonostante i tratti del volto deturpati, i movimenti goffi, la scarsa lucidità mentale e la difficoltà a rapportarsi con il prossimo: un’attrazione da circo che si consumerà nel lampo di una fiammata, come la sua gioventù, soffocata dallo sviluppo accelerato del suo corpo, lanciato a tutta velocità verso la fine. Accanto a lui, appare piccolo, quasi bambino, suo fratello maggiore Martín, che pure è diventato presto adulto, combattendo al fronte, rimanendo invalido, impossibilitato a lavorare perché privato dell’uso di un braccio. Un uomo che guarda Joaquín dal basso, con deferenza, perché da lui dipende la sua vita, l’unica speranza per il futuro. Il racconto è racchiuso in questo semplice gioco di proporzioni invertite, come in uno specchio deformante, come in tante fiabe infantili, in cui la meraviglia amplifica le cose più piccine, facendole diventare importanti, benché eternamente disallineate rispetto ad una realtà che permane temibile e misteriosa. Questo film non pretende di oltrepassare l’orizzonte stilizzato di quel disegno dalle forme ingenuamente travisate, muovendo passi timidi nel delicato sentimento del contrario, in quell’ansia che, di fronte alla stranezza, lascia l’anima sospesa tra la curiosità dell’avventura e la voglia di fuggire. Lo spettacolo dell’unicità suggerisce come l’eccezione alla regola sia una strada sbarrata, preclusa alla normalità, che costringe costantemente ad imboccare sgradite deviazioni. Di fronte a quella sconcertante rivelazione, ammirazione e orrore si fondono, ed è questa paradossale miscela a creare il mito dell’eroe, glorificato non tanto perché coraggioso, quanto perché spaventosamente offeso dalla sorte. Joaquín è il cuore pulsante della tensione che mantiene l’umanità in una infinita, alternante attesa: ci si aspetta che, da un momento all’altro, la verità possa cambiare volto, spezzando la dolorosa monotonia dell’evidenza, ma, una volta avvenuto il trauma del miracolo, si desidera soltanto che tutto ritorni come prima. Illusione e disincanto si concatenano, come nel ciclo che porta dall’infanzia alla vecchiaia, chiudendo il cerchio della vita sulla stanchezza di non voler più vedere niente che induca a pensare che tutto è possibile, e che nulla mai può dirsi concluso.
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