Regia di Robert Aldrich vedi scheda film
Coerente con il proprio assunto, Aldrich ha realizzato un’opera ammirevole e perfetta, la cui epica di sapore un po’ arcaico nell’ambito del cinema americano degli anni ’70, rimane forse la prova migliore della sua straordinaria modernità, e un compendio superlativo che esalta la qualità del suo cinema della disfatta e del furore.
L’imperatore del nord, coinvolgente, epicizzata ballata folk dalle atmosfere che richiamano direttamente alla memoria il grande London (La strada, romanzo pubblicato dallo scrittore nel 1907 ne testimonia autorevolmente i riferimenti), è un classico dell’avventura, perfetto per ritmo, ambientazione e caratterizzazione dei personaggi, che concentra soprattutto la sua attenzione sulle tematiche sempre attuali dell’odio viscerale e della violenza primitiva sadica e spietata.
E’ una allegorica introspezione sul destino umano con la quale vengono “magicamente” esplorati da Aldrich (in maniera personalissima per altro) territori convenzionali come quelli del viaggio, del duello con il nemico naturale, dell’educazione formativa alla vita, ma innestandoci dentro e fondendoli magistralmente, temi sociopolitici non di secondaria importanza (il popolo dei nomadi senzatetto contrapposto a quello della polizia e dei padroni in primo luogo, tanto per fare un esempio concreto).
Quella che mette in scena il regista (l’epopea di un temerario vagabondo chiamato “Numero 1”, l’imperatore del nord come viene definito appunto, che negli anni tragici della grande depressione sfida il brutale Shark [Posso viaggiare dove voglio, meglio dei presendenti delle compagnie ferroviarie], cinico e feroce capotreno determinato invece a non accettare intrusi sui suoi convogli) è una storia di ampio respiro, come sempre dalle forti tinte, ma emozionalmente perfetta, incentrata come si può ben intuire da ciò che ho sopra anticipato, sui vagabondi ferroviari degli anni della grande crisi (gli hobos), un argomento che ha ispirato altri straordinari esempi di grande cinema (si pensi per esempio a I dimenticati di Preston Sturges o persino a Furore di Ford) ma trattato con una differente ottica visiva, perché per Aldrich il passato non è più semplicemente un’occasione di riflessione sociale che rimanda direttamente al presente, né il terreno per un’operazione di revisione teorica di una maniera di intendere e fare cinema (quello della grande stagione hollywoodiana di riferimento), o tantomeno un mezzo da utilizzare per smitizzare dalla patina di una dolorante nostalgia epoche e costumi remoti: per lui, il passato assume e mantiene le proporzioni gigantesche del mito (e come tale viene trattato), perché i suoi eroi (quelli principali, su cui focalizza l’attenzione primaria) non sono mossi dall’avidità a dall’interesse, ma da forze e motivazioni superiori persino alla stessa giustizia, così da assumere una dimensione catartica analoga a quella dei grandi personaggi omerici. Sono dei miserabili e dei reietti, ma nonostante la loro condizione di inferiorità, noi li vediamo stagliarsi come semidei sui tetti dei vagoni dei treni in corsa, perché anche dei sanguinari frenatori o dei cenciosi vagabondi, possono diventare gli abitanti di un immaginifico olimpo cinematografico, quello di un regista che qualche anno prima si era così raccontato: Descrivo figure eroiche. Sono contro l’idea di un destino tragico, ogni uomo deve agire anche se spezzato. Il sacrificio volontario è il massimo dell’integrità morale. Il suicidio è un gesto di rivolta: bisogna pagare il prezzo della lotta.
Coerente con il proprio assunto quindi, Aldrich ha realizzato un’opera ammirevole e perfetta, la cui epica di sapore un po’ arcaico nell’ambito del cinema americano degli anni ’70, rimane forse la prova migliore della sua straordinaria modernità, e un compendio superlativo che esalta la qualità del suo cinema della disfatta e del furore dentro un mondo devastato dalla crudeltà della miseria.
Magnifica anche la prova degli attori (e anche quello fra Marvin e Borgnine possiamo definirlo davvero uno scontro fra due titani della scena). Se Marvin è dolentemente prepotente nella esposizione carognescamente provocatoria di quella che potrei definire la “dignità superiore del perdente”, non gli è certo da meno nella sua fiera prepotenza incarognita, Ernest Borgnine, altrettanto stratosferico nella sua esasperata spietatezza. Da non trascurare però nemmeno la prova maiuscola di Keith Carradine, tutt’altro che un terzo incomodo fra due giganti: personaggio fondamentale nel racconto, fra tutti è anche quello più negativo e ambiguo, attratto come è principalmente dal miraggio di una discutibile gloria, nella sua indisciplinata guasconaggine un po’ sbruffoncello..
Christopher Knopf, abituale e fidato collaboratore del regista, ha realizzato come al solito una sceneggiatura ineccepibile e rigorosa, che permette davvero ad Aldrich di esprimere al meglio il suo talento (il risultato complessivo è indiscutibilmente catalogabile fra i più entusiasmanti della seconda fase della sua carriera).
Ottima anche la fotografia in Technicolor – solare e rigogliosa – di Joseph F. Biroc ed efficacissima la colonna sonora realizzata da Frank de Vol (addirittura entusiasmante la canzone A Man and a Train, cantata con particolare aderenza vocale, da Marty Robbins.
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