Regia di Keisuke Kinoshita vedi scheda film
Seppur meno conosciuto all'estero, e in particolare in Occidente, Kinoshita è certamente uno dei più importanti registi giapponesi del dopoguerra, al pari di mostri sacri come Kurosawa, Ozu e Mizoguchi, e pertanto un protagonista del cinema locale di quel periodo.
E questo Ventiquattro occhi, insieme al successivo La leggenda di Narayama, può essere tranquillamente considerato il vertice della sua arte.
Un'opera profonda e toccante, che, come tipico dello stile del regista, procede a ritmo sostenuto e pacato, utilizzando ampiamente long takes e campi e piani medi e lunghi, per narrare la propria storia, e controllare così abilmente il gran numero di personaggi, offrire un minimo approfondimento di diversi di loro e soprattutto offrire l’occasione all’ottima fotografia di Hiroyuki Kusuda di mostrare allo spettatore lunghe riprese di paesaggi che talvolta paiono quasi dipinti.
La sceneggiatura di Kinoshita, ispirata all’omonimo romanzo di Tsuboi, rende presente la storia senza mai porla in primo piano, mostrando invece e unicamente gli effetti che il progredire degli eventi hanno sulle vite dei protagonisti, e costruendo così un affresco delicato ma mai veramente nostalgico del Giappone di quegli anni, colto in una delle fasi più tragiche della sua vicenda storica.
La nostalgia che si può avvertire lungo il film è rivolta al tempo perduto e alla perdita degli affetti e dei legami, nell’ambito di un infantile speranza di poter tornare indietro ad un periodo in cui se non si stava proprio benissimo, almeno si stava tutti insieme (toccante, a questo proposito, la vicenda di Matsue), questo è vero, ma mai il regista sembra realmente suggerire, tra le righe, di credere alla possibilità (oltreché all’opportunità) di recuperare una supposta passata “età dell’oro” e mai, di conseguenza (al contrario di quanto pare qualcuno abbia sostenuto al tempo dell’uscita) assume un atteggiamento assolutorio o poco deciso nei confronti di quell’epoca.
Diversi dialoghi e situazioni all’interno del film (emblematici gli incontri con un preside freneticamente preoccupato di seguire le direttive), si rilevano a volte neanche troppo sottili stoccate al clima politico imperialista e militarista di quegli anni.
Ma si tratta di brevi spezzoni, poche scene all’interno del quadro più ampio di un film di oltre due ore e mezza che per la gran parte della sua durata si concentra invece sui sentimenti e le relazioni che si instaurano sia tra i dodici bambini che tra i bambini e la loro maestra (trascinante, tra le altre, la sequenza in cui si imbarcano in un lungo viaggio per andarla a trovare).
Maestra che, inizialmente, per i suoi modi (osa addirittura guidare una bicicletta!) e il suo modo di abbigliarsi, non viene affatto ben accolta dalla piccola e chiusa comunità dell’isola (e questo punto, seppur di sottecchi, offre spunti di riflessione su un altro aspetto di quei tempi, ovvero la condizione della donna e lo stupore ancora presente, quantomeno nelle aree rurali, di fronte a qualunque cosa moderna o, ancor di più, occidentale).
A tratti quasi un musical, lungo il suo corso il film fa largo uso di canzoni e canzoncine (cantate in coro dai ragazzi) che contribuiscono a creare l’atmosfera e a smuovere lo spettatore nelle scene più drammatiche, a trasmettere alternativamente una gioiosa vitalità o una profonda tristezza. E se talvolta pare lì lì per cedere al patetismo, sempre si dimostra al contrario in grado di suscitare autentica commozione.
Ventiquattro occhi è un capolavoro umanista e pacifista, un film, come detto, pacato eppure potente, recitato benissimo dalla protagonista Hideko Takamine (una delle più celebri attrici nipponiche e sorta di musa per il regista Mikio Naruse) ma anche dai ragazzini, un’opera di grande rilevanza, emblematica di una delle fasi più fertili del cinema giapponese (al pari di molto più celebri e celebrati film come I sette samurai e Viaggio a Tokyo).
Presentato al festival di Venezia nel 1955, molto popolare (in patria) al tempo dell’uscita, col tempo è stato scandalosamente relegato in secondo piano e semi-dimenticato e, altrettanto scandalosamente, in Italia non è mai stato neppure distribuito.
Da recuperare assolutamente su DVD straniero, restaurato dalla benemerita Criterion. Remake a colori (introvabile) di Yoshitaka Asama nel 1987.
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