Regia di Alena Lodkina vedi scheda film
Milena scopre le sue origini. Non le può capire. Ma le deve amare. Perdutamente.
Opalescenza. Sintomo di una realtà nascosta, semplice ma inquieta. Come chi scava a mani nude nelle rocce sotterranee, alla ricerca di minuscoli tesori variopinti, che reagiscono alla luce con gioiosa sobrietà. Una comunità di anziani minatori australiani, che vivono in caotiche baracche, appartati dalla civiltà, è il pianeta selvatico che accoglie Milena. Una ragazza di città, orfana di madre, ma figlia di uno di loro. Una marziana che attraversa quella terra sentendosi ovunque incantevolmente spaesata, abbracciata da un nulla ristoratore, che la affascina e la spaventa, mentre la respinge con il tocco stuzzicante di una maliziosa carezza. Andare o restare. Cercare di capire o rassegnarsi ad uno stupore senza costrutto. Milena ondeggia fra il dovere di non disprezzare le sue radici e la tentazione di accoglierle per quello che sembrano: l’ultimo cencioso lembo di una leggenda che ha illuso e confortato tanti disperati come il suo vecchio padre, barbuto e bofonchiante, insieme ad altri orchi addomesticati, piegati dalle fatiche, sgretolati dall’aridità della pietra, del sale, della sabbia, di tutto ciò che graffia la pelle e ti fa assomigliare a un cespuglio sfibrato dal vento. I lineamenti di Milena sono ora morbidi come un frutto, ora affilati come uno sguardo indagatore: si direbbero parte di quel contraddittorio gioco della natura, la cui energia primitiva spiana i contorni delle montagne, mentre cosparge il paesaggio dei loro ruvidi detriti. L’ambiente è un’antica altezza decaduta in cui si sprofonda, si stenta a camminare, mentre l’orizzonte vuoto fa perdere il senso dell’orientamento. Uno splendore vacuo ed abbagliante cattura i desideri, assorbe ogni voglia di darsi una direzione. Così si rimane prigionieri dell’inesistente, dell’incomprensibile, di ciò che non vediamo, né riusciamo ad immaginare. Impossibile farlo parlare. Una faccia viola potrebbe raccontare una storia, ma preferisce piangere e tacere. Un ragazzo invecchiato si diverte a sparire nell’acqua di un lago. Il soffitto svanisce, e si va a dormire sotto le stelle. Il cancello chiuso si apre da solo. Qui non c’è abbandono che tenga. La solitudine è continuamente insidiata da un soffio d’aria che insiste, per far compagnia all’anima, anche se giunge come un intruso, e pretende brutalmente di essere amato. Un fantasma sgradito. Splendente di un sole disperso nelle sfaccettature di mille sogni infranti. Un essere impalpabile ma prepotente. Il suo volto è uno sfolgorio fatto a pezzi, che ha smarrito il suo potere sul mondo, ed ha cercato rifugio nelle sue viscere, dove può ancora scherzare con ciò che gli resta: la sua segreta stravaganza, i suoi strani colori che chiazzano il buio, senza un significato preciso.
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