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Krieg

Regia di Rick Ostermann vedi scheda film

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La recensione su Krieg

di OGM
6 stelle

Un uomo solo. Contro il mondo intero. Per disputare una partita inutile e crudele, senza vincitori.

La metafora si attacca alle storie comuni. I massimi sistemi hanno la vanità di specchiarsi nelle vicende della porta accanto, che è un modo per sentirsi importanti, parlando in faccia alla gente. Anche la guerra insegue il suo momento di gloria quando le armi tacciono, frugando nelle perverse fantasie di persone come tante. L’essenza di questo racconto è una ricostruzione in miniatura dei meccanismi dell’odio, una saga psicologica in cui la tentazione della violenza si impone, prepotentemente, nell’animo di un uomo qualunque, in seguito ad una sfortunata serie di eventi. Il pacifismo da salotto si rivela un’ipotesi debole, che non resiste alle sfide che feriscono l’orgoglio e straziano il cuore. Questo film vuole che il male vinca per forza, contro la morale e il sentimento, sotto la spinta di un’emozione vagabonda, di una normalità disorientata. Un padre vede il figlio partire per una rischiosa missione militare. Inizia così un’inquietudine che trova sfogo nella ricerca di un isolamento clandestino e selvatico, da consumare nel silenzio di una baita abbandonata, coltivando via via la gelosia per un’oasi rubata all’oblio, che nessun altro deve violare. Tanto meno quel senzatetto sconosciuto che si aggira nel bosco vivendo di caccia: l’immagine sfuggente del nemico, il prototipo del pericolo che è meglio prevenire che  combattere, agendo prima che la sagoma infagottata negli stracci si trasformi in un essere umano. La cecità è l’affanno senza sbocco di chi non vuole guardare al di là del recinto, oltre le mura di una prigione che cattura il pensiero. La mente si intrattiene con le proprie ossessioni. L’incubo è un’equilibrata miscela di sonno e paura.   È il parto mostruoso di un riposo solitario  di cui il mondo non può percepire l’orrore: alla fine tutto il resto scompare, dissolvendosi insieme alla propria capacità di procurare consolazione. Sembra eccessiva questa negazione assoluta, come le iperboli di cinismo in cui il protagonista viene catapultato dalla sua fuga insensata: una corsa incontro al vuoto, che finisce per sostituire la meta inesistente con un bersaglio fisico da colpire.  Questa tragica interpretazione del punto di arrivo, che si fa apocalisse cruenta, utopia distruttrice, liberazione finale, dannazione eterna è l’acuto stridente in fondo ad una melodia troppo urlata, in cui il realismo assume i toni apodittici dell’aberrazione senza se e senza ma. In questo Krieg – dal titolo un po’ altezzosamente generico -   l’escalation è un paradigma narrativo, un diktat  teorico a cui la trama deve fatalmente piegarsi, a costo di sacrificare il dubbio, il mistero e, in definitiva, il dramma.  Il dolore, nella realtà, è un raffinato gioco di sfumature, anche quando è lacerante. La rabbia, il trauma, la disperazione seguono in punta di piedi i suoi imperscrutabili, labirintici percorsi nell’ignoto. Non ci sono formule, né regole, che lo indirizzino, sicuro, verso la prevedibile morale della favola. 

 

Ulrich Matthes

Krieg (2017): Ulrich Matthes

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