Regia di Rick Ostermann vedi scheda film
Venezia 74 – Orizzonti.
Pensare di andare in guerra per dare il proprio contributo alla realizzazione di un mondo migliore, è pura utopia. Dai morti sul campo, senza distinzione di bandiera, il dolore si diffonde di famiglia in famiglia, distruggendo anche i rapporti più solidi, obbligando a intraprendere nuove strade, possibilmente in luoghi quanto più lontani da ogni forma di ricordo e rapporto.
Periodo uno. Quando Chris (Samuel Schneider) comunica in famiglia l’intenzione di partecipare a una missione in Afghanistan, i suoi genitori Arnold (Ulrich Matthes) e Karen (Barbara Auer) sono seriamente preoccupati. Quando il ragazzo parte, comincia il conto alla rovescia in previsione del suo rientro, ma i mesi di lontananza sembrano interminabili.
Periodo due. Arnold compra una casa in alta montagna, dove si trasferisce insieme al suo cane. Nemmeno il tempo di arrivare e viene preso di mira da uno sconosciuto che sembra seguirlo da vicino.
Con Krieg, Rick Ostermann racconta una vicenda incentrata sui traumi provocati dalla guerra, lasciando un segno profondo anche in virtù di un montaggio alternato su due periodi distinti e consecutivi, con un equilibrio che ne legittima ampiamente il ricorso.
Sul tema guerra, vengono suggeriti, descritti e sviscerati una serie di punti di vista, tra chi è pacifista tout court e chi ancora ingenuamente crede nella missione di cambiare il mondo. Successivamente l’autore evidenzia in che posizione ha scelto di collocarsi, riuscendo anche a seminare il terrore del fronte senza il bisogno delle immagini. Infatti, bastano le e-mail che il giovane Chris manda ai genitori, che assumono il medesimo valore di un reportage in linea diretta.
Invece, per fare il punto su quanto può venire a cascata, vengono sfruttati entrambi i canali. I parenti dei deceduti sono chiamati ad affrontare il peggiore dei traumi, con progetti solari destinati ad affondare nel buio della disperazione e modi differenti di reagire, Uno scenario che vede Ulrich Matthes impegnato in un duro lavoro di immedesimazione, all’interno di un’espansione apparentemente sospesa e delineata gradatamente.
Un lungo periodo transitorio nel quale un cane è il legame da non perdere, l’unico che ricollega con chi non c’è più, un canale espositivo che accompagna all’approdo ultimo, un finale contraddistinto da più fattori ma anche sbiadito, vagamente contorto e privo di quella sostanza che gran parte del procedimento pone al centro del suo tessuto.
Dunque, Krieg pasticcia a pochi passi dal traguardo, lasciando improvvisamente per strada automatismi di buon rendimento, senza comunque cancellare il merito di saper esprimere i concetti cui tiene, con alcuni spunti pregevoli nei momenti ad alta intensità drammatica e una regia che ha pensato e coltivato una struttura a due vie, un espediente che fa tutta la differenza del mondo.
Epidermico e discretamente misurato, penalizzato – e non poco – dalla chiusura del cerchio.
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