Regia di Federico Fellini vedi scheda film
La dolce vita romana ai tempi dei Fori Imperiali.L'opera di Petronio,da molti considerata una sorta di parodia dell'Odissea omerica in cui al prode Ulisse viene sostituito un protagonista inetto e vanesio rivive nella visualizzazione pantagruelica di Fellini.Però qui non c'è nulla di parodia,non c'è ironia.Il tono è molto più lugubre,funereo.Più che in altri suoi film è evidente l'ego del maestro riminese che include il suo nome del titolo,ne scrive la sceneggiatura e tiene a far sapere di aver lui stesso ideato le scenografie.E se in molti suoi film è difficile scindere l'aspetto concettuale della sua opera da quello visivo,qui la potenzialmente magmatica materia narrativa è schiacciata dall'urgenza di mostrare, l'architettura visiva prende decisamente il sopravvento.E'il contenitore che domina incontrastato sul contenuto come è successo molte altre volte a Fellini.La cartapesta delle scenografie,il cromatismo particolare,le innumerevoli invenzioni visive divorano il film e la frammentarietà narrativa contribuisce in questo senso ad appesantire il barocchismo figurativo dell'opera..Noi vediamo le peripezie di questi due giovinastri in un succedersi di esperienze,banchetti,incontri pericolosi.Sembra tutto a compartimenti stagni,non comunicanti,il film procede come un lungo collage delle esperienze dei due.Ed è altrettanto evidente che Fellini parlando dei vizi della Roma imperiale (l'opera di Petronio è databile al periodo di Nerone) in realtà cerca di additare la condizione della Roma di quel tempo.Ecco perchè l'accostamento a La dolce vita non è così ardito.Purtroppo anche con il Satyricon non scocca la scintilla del mio gradimento verso l'opera di Fellini,regista con cui l'amore non è mai scoccato.Lo trovo un film di bulimia visiva impressionante ma che impressiona anche per il vuoto che lo attraversa,un imponente apparato scenografico che poggia sulla sabbia del disgusto che ha Fellini del mondo che qui rappresenta.In più irrompe prepotente l'angoscia per la morte:dopo il bilancio esistenziale pericolosamente autoassolutorio di 8 e mezzo,Fellini ritorna a descrivere vizi pubblici e laide pulsioni comuni sia alla Roma imperiale che a quella odierna.In più la morte,vista come annullamento di tutto,come ultimo martirio della carne.E il finale su una nave ,gai sorridenti mentre un gruppo di vecchi divora le carni del vecchio poeta morto per possederne l'eredità è il simbolo di un incontro ineludibile.Ma per ora rimandato.....
la materia narrativa è frammentata e schiacciata da un barocchismo visivo ridondante
mediocre
inadeguato
efebico
bravo
nella parte di Trimalcione si dimostra adeguato
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