Regia di Damien Manivel, Igarashi Kohei vedi scheda film
Un favola chapliniana tra le nevi del Giappone. Senza parole.
I registi Damien Manivel e Kihei Igarashi si sono conosciuti in occasione del festival di Locarno nel quale presentavano le loro rispettive opere. Insieme decisero che avrebbero girato un film insieme e la ricerca di idee li ha portati nel nord del Giappone, a Aomori (che significa “la foresta verde”) in una delle zone più fredde e innevate del paese.
Qui hanno fatto la conoscenza con un pescatore e con suo figlio, Takara, di sei anni. Il padre lavora in città, esce presto e ritorna tardi. Il tempo da trascorrere con la famiglia e il figlio è pochissimo. Padre e figlio recitano nel film interpretando loro stessi aderendo in maniera mimetica alle loro vite. Su questa realtà i due registi hanno montato una storia esemplare di grande impatto emotivo che supera l’aspetto biografico, comunque esistente, per diventare specchio della società giapponese contemporanea, così comune ormai ad altre realtà sociali: l’aspetto della sussistenza, del sacrificio quotidiano, porta a rimuovere gli aspetti più profondi della vita lasciando al tempo la responsabilità delle conseguenze di quella scelta obbligata. E’ un loop senza fine, la vita del bambino, inscritta in una bolla temporale nella quale la presenza genitoriale è un ricordo di un sogno sfumato tra sonno e veglia, il sapore dimenticato di una carezza mattutina, una voce in lontananza al ritorno.
Diviso nei tre capitoli Il disegno; Il mercato del pesce; Un lungo sonno, The Night i Swam è un’abbacinante fiaba intessuta di poesia sull’amore e il desiderio. Il desiderio di vedere il padre da parte del piccolo Takara che come Cappuccetto Rosso abbandona il sentiero inoltrandosi nella coltre bianca che divide lui dal genitore, diventa un viaggio di formazione nel quale il contesto si rivela fondamentale e significativo nel momento in cui il bambino lo attraversa e lo plasma con i suoi occhi innocenti. Non ci sono lupi, in questo film, non ci sono pericoli se non quello instillato dalla percezione universale di un bimbo solo in viaggio, ma è appunto solo una percezione di un mondo che di fatto non mostra alcuna ostilità quanto una conclamata disaffezione verso il prossimo.
Non ci sono parole perché non c’è bisogno di spiegare nulla, le pazienti riprese a camera fissa e il sonoro diegetico ambientale esaltano la naturalezza della presenza del bimbo sullo schermo. Takara sullo schermo è una presenza quasi chapliniana, esterrefatta di fronte al mondo ma per nulla spaventato, naturalmente buffo, colorato, capace di trovare poesia dove un adulto neppure guarderebbe. La cattura di ogni sguardo velato d’impalpabile tristezza e di ogni sorriso orgogliosamente sdentato, è un sincero inno alla bellezza dell’essere bambino alla ricerca della propria strada e all’endemico stimolo all’auto realizzazione della propria vita.
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