Regia di Abel Ferrara vedi scheda film
Già set reale del primo film di Matteo Garrone, Estate romana, Piazza Vittorio a Roma è una delle più grandi piazze della capitale, un quartiere di Jackson Heights de noantri, in cui convivono abitanti del luogo, italiani provenienti da qualunque regione, est europei, americani (Abel Ferrara e Willem Defoe) e infine immigrati africani e sudamericani. Un ricettacolo di razze di cui Ferrara vuole sottolineare le profonde contraddizioni; per farlo va a intervistare senza un ordine preciso le persone che trova per strada, dando uguale importanza a qualsiasi testimonianza, dal cassiere del Bangladesh all'attivista di CasaPound, facendo straparlare di immigrazione e non cogliendo affatto la vitalità del luogo, tanto esaltata a parole ma assolutamente invisibile. Il risultato è che anche Piazza Vittorio risulta un indigesto ricettacolo di punti di vista, buttati all'attenzione dello spettatore con tutte le ovvietà che si portano appresso: immigrati divisi fra ubriachezza, folklore AfricanBeat e desiderio di lavorare, ed esponenti italiani di classi meno abbienti che accusano la presenza degli stranieri perché "gli italiani vengono prima di tutti", "ci rubano il lavoro", "però in realtà non sono tutti cattivi". L'unico vero intervento diretto di Ferrara è quando si arrabbia con un immigrato intervistato dicendogli che anche lui cerca lavoro, e quindi non sarà lui a risolvere il problema.
Lungi dal desiderare una risposta all'annosa questione migratoria (aspetto solo parziale del discorso Piazza Vittorio, ma nel film stupidamente fulcrale), lo spettatore potrebbe però pretendere dal nuovo documentario di Abel Ferrara un'impostazione estetica meno qualunquista e superficiale. L'effetto non è propriamente confuso e stordente, ma disordinato e indisciplinato, benché condotto allo scopo di riferire un reportage su cose stra-note senza considerazioni più grandi. Quello di Ferrara è un occhio basso, sfacciatamente umile, che ritrova parvenze del suo cinema fiction nelle figure più freak che incontra per strada e fissa con invadenza documentaristica - non è un caso la citazione su di Jackson Heights, in questo tipo di documentari Wiseman ha fatto scuola - sparando pure talvolta qualche risata inopportuna. Il regista italo-americano, che si dichiara lui stesso immigrato, cerca di non esprimere giudizi sui luoghi che osserva, nonostante si diverta ad apparire in camera per passeggiare in campo quasi come un casuale passante ramingo e vagabondo. Il suo anti-attivismo è però anche più ricattatorio di quanto non si sia imputato a Human Flow di Ai Weiwei (anch'esso a Venezia 74 nel 2017), e anzi si presenta pure come "ricerca antropologica" in cui l'atto del filmare, rispetto sempre a Weiwei, non è performance ma puro diletto, pour jouer, non un modo per non essere seriosi ma un modo per essere superficiali. Poco può la realtà degli scenari rappresentati, l'avvicendarsi dei filmati d'epoca dello studio Luce e l'imparzialità addirittura di fronte agli azzardi neofascisti di CasaPound, o alla ristoratrice cinese amatrice ingenua di Mao Tse-tung. Alla fine si accumulano i soliti dilemmi, senza ricerca estetica (e senza anti-ricerca, anche se sappiamo che la spontaneità vera non esiste e non avrebbe neanche senso), senza sguardo e senza un montaggio che possa dirsi tale, risultato certamente di una post-produzione disattenta e grossolana.
Se proprio non si vuole scomodare Frederick Wiseman, per vedere doc del genere concepiti decisamente meglio, si scomodi Le bois dont les reves sont faits di Claire Simon, costruito in modo analogo in termini di imparzialità, ma con una sensibilità che Ferrara non conosce nemmeno.
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