Regia di S. Craig Zahler vedi scheda film
La differenza fra “la parola negro” e “la parola di un nero”.
Tallonando, sfruttandone la scia, il miglior Quentin Tarantino, quello di “Jackie Brown” e “GrindHouse - Death Proof”, il musicista heavy metal, compositore di colonne sonore, romanziere, direttore della fotografia, sceneggiatore e regista S. Craig Zahler, imparata la lezione ellroyana (le impronte d'inchiostro e sangue di Leland “Lee” Blanchard & Dwight “Bucky” Bleichert e di Bud White & Ed Exley e di Pete Bondurant & Kemper Boyd abitano questi detonanti fotogrammi) e raccogliendo varie eco provenienti da William Friedkin (“To Live and Die in L.A.”) e Michael Mann (“Heat” e “Miami Vice”) e dall'ottima seconda stagione del “True Detective” di Nick Pizzolatto, con la sua opera terza, dopo il buon “Bone TomaHawk” e l'ancor migliore “Brawl in Cell Block 99”, doppia e riduce Rob Zombie per quello che è, una mammoletta.
“Come i telefoni cellulari, e altrettanto fastidiosa, la politica [un-correct] è ovunque. Essere etichettati come razzisti nel dibattito pubblic[istic]o di oggi è come essere accusati di comunismo negli anni '50. [...] L'industria dell'intrattenimento, precedentemente nota come notiziario, ha bisogno di cattivi.”
Un film elementare, magnifico, compartimentato, terribile, morale, stratificato, divertente, terrificante, spietato, onomatopeico (draggedacrossconcrete: ossa che si spaccano e carne che si dilania di corpi trascinati sul cemento), postmoderno-massimalista: ingloba la contemporaneità strutturandola s'un'architettura d'impianto classico, e da questo PdV forma un trittico eterogeneo dialogando a distanza con due film dicotomici tra loro e rispetto a questo, ovvero “Inside Man” di Spike Lee e Russell Gewirtz (di cui rappresenta la versione infernale) e “Before the Devil Knows You're Dead” di Sidney Lumet e Kelly Masterson.
Qualche cedimento alla didascalicità solo nel lungo (le due ore e mezza sono in toto necessarie, i 150' sembrano 30) sottofinale, con Ridgeman (Mel Gibson) che, in due distinte occasioni, l'una conseguente all'altra, spiega la (propria) situazione a Johns (Tory Kittles).
“You fucking dumbass! I wasn't gonna blackmail you. My word is good. You should have trusted a nigga.”
Rifiutando qualsivoglia miserabile idiozia semantica in uso a chi, destreggiandosi tra due dicotomici poli opposti, ma paralleli e convergenti, il politicamente corretto e il "Non sono razzista, ma...", il primo dei quali ha avuto il torto di sdoganare la peggior feccia rappresentata dal secondo, pensa così di inquadrare il mondo, il film non salva alcuno, o quasi: il lieto fine, per sua stessa costituzione (memento mori), non esiste.
Personaggi che, con due pennellate, sono affreschi d'esistenza.
Focali corte che descrivono la scena come fosse una coreografia.
Dal film precedente il regista recupera Vince Vaughn, Jennifer Carpenter, Don Johnson, Udo Kier, Fred Melamed e, oltre a Mel Gibson e Tory Kittles (e gli O'Jays), aggiunge Michael Jay White, Laurie Holden, Jordyn Ashley Olson, Tattiawna Jones, Thomas Kretschmann... Tutti eccellenti, tutti diretti benissimo.
Alla fotografia e al montaggio i due collaboratori storici del regista: Benji Bakshi e Greg D'Auria (“Star Trek: Beyond”).
Musiche (canzoni e colonna sonora) come d'abitudine ad opera dello stesso S. Craig Zahler col fido Jeff Herriott, con in più il Rhythm & Blues di “Street Corner Felines” dato in pasto agli O'Jays (Eddie Levert & Walter Williams) a fare da cornice (intro-outro) e colonna portante.
Possum. Refrigerator. Dead rat.
In the concret jungle safari, il nusbari (ma potrebbe benissimo essere un red-neck white-trash) è a caccia di leoni barbarici (e che si fottano quelli potenzialmente d'oro veneziani) che sono scesi dall'albero solo per regredire a carcharodon (fondando banche o rapinandole).
In un (neo)noir-poliziesco (urban western) post new-hollywood (old-school), la differenza fra “la parola negro” (the word nigger) e “la parola di un nero” (a black's word).
* * * * (¼) ½
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....grazie per la distinzione Matteo....spero di vederlo,dal trailer....promette bene.
Può tornare sempre utile saper distinguere tra un opossum e un topo morto.
Giusto...
?!
Matteo non c'e' due senza tre....ho i due film precedenti,spero di trovarlo...
Al cinema, in Italia, mi sembra sia uscito a Roma e Milano in seno alle rassegne in coda alla Mostra di Venezia.
Acquistato (si spera per essere distribuito) dalla piccola meneghina Adler Entertainment, ancora ben poco si sa (from San Babila to Stivale).
Per ora non è difficile da reperire attraverso vari canali, navigli, rogge...
La scoperta di S.Craig Zahler sarà per me quasi sicuramente l’unico ricordo piacevole che tra qualche anno estrapolerò dalla clausura.
Visti tutti e tre, in pochi giorni, in ordine cronologico: concordo sul crescendo.
La base tarantiniana è innegabile (sarà però anche ora di farcene una ragione che da “Pulp Fiction” in avanti un certo tipo di cinema è cambiato per sempre), ma Zahler, secondo me, soprattutto nei dialoghi, evolve in un modello di ironia apparentemente di strada, in realtà cinicamente sofisticato (come già in “Brawl in Cell Block 99”).
Curioso che a rimanermi in circolo, in questo immediato post-visione, siano le due sequenze centrali con Jennifer Carpenter: ipnotizzanti, da togliere il fiato.
Credo poi di aver colto un fugace, ma evidente, omaggio al grandioso finale di “The Thing” di Carpenter: i due superstiti al massacro, per terra, stremati, concordano di sospendere le ostilità.
Attendiamo “Hug Chickenpenny”, da un racconto dello stesso Zahler (che credo eviterò di leggere, non potendo credere che le sue qualità di romanziere-novellista siano pari a quelle di cineasta).
Concordo, e sui dialoghi, e su Carpenter-LEI (in generale troppo sotto/mal utilizzata dal cinema) e su Carpenter-LUI (a cui aggiungo - per stile e contenuto zahleriano complessivo - la scazzottata trasformatasi in estenuante corpo a corpo reiterato che sboccerà in una grande amicizia al "centro" di "They Live").
https://youtu.be/4-MVMbm6c0k
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