Regia di Ai Weiwei vedi scheda film
Incute non poche incertezze l'Arte di Ai Weiwei, non tanto per la sua natura provocatoria, ma per la sua natura esibizionistica e autoreferenziale: in che misura è giustificata? Una risposta ce la dà in parte il suo primo importante lavoro cinematografico, Human Flow, narrazione frastagliata e variegata degli esodi delle popolazioni oggi, quasi uno "stato dell'arte" in materia di immigrazione. Da un lato il film non riesce a trattenersi a sufficienza su singole situazioni, vomitando piuttosto interviste e informazioni di carattere cronachistico e giornalistico (non si risparmiano le scritte in sovraimpressione); dall'altro punta sull'esperienza visiva abbacinante, con immagini che stanno un po' fra Lektionen in Fisternis di Herzog e Koyanisqaatsi di Godfrey Reggio, passando per direttissima dallo Spectres Are Haunting Europe di Giannari e Kourkouta e dal recentissimo Ta'ang di Wang Bing (irrinunciabile per qualsiasi discorso di una certa valenza in materia di documentari). Portando alla coscienza dello spettatore dati e input apparentemente disinteressati, Weiwei sembra più scandagliare le possibilità del reportage, piuttosto che quelle del Cinema tout-court, infatti si può dire che in Human Flow la visione del soggetto sia prevalente sulla forma in sé stessa. Non si può negare però che Weiwei intrecci col tema dell'immigrazione anche una riflessione sul mezzo Cinema, come modalità alternativa di espressione: egli è infatti continuamente in scena, in quella che per alcuni può essere pura vanitosa messa in scena, e che per altri (come per chi scrive) è invece il tentativo schietto e diretto di sporcarsi le mani, aiutando e comunicando coi profughi che incontra, e avvicinandosi con spasmodica curiosità con il suo cellulare videocamera: la sua presenza in campo somiglia più alla rappresentazione di una performance di Body Art, ancora prima che a una ricerca metacinematografica.
Il quadro finale della razza umana è decisamente poco lusinghiero: continue morti, ingiustizie, sofferenze, mai offerte allo spettacolo, ma tradotte in paesaggi deformati, carrelli insinuosi e corpi devastati. Viene in mente Sebastiao Salgado, ancor prima che Steve McCurry, nell'idea quasi torbida di trovare una malsana bellezza anche laddove c'è distruzione, morte e apocalisse. Weiwei sfrutta anche al massimo la possibilità comunicativa del mezzo-Cinema per saltare di un continente all'altro come farebbe una scimmia affamata, cioé a dire con un semplice "cut to", seguendo un percorso che ha l'aspetto di un vagabondaggio flaneur, più che di un vero e proprio saggio a tesi. E per fortuna: davvero Weiwei non vuole dire nulla, se non ciò che è deducibile (più o meno facilmente) dalle citazioni che riporta in calce scolpite sulla pietra. E' però l'esperienza quella che alla fine rimane prima di tutto, e ad essa non contribuiscono solo i fantasmagorici droni, le fluidissime steady-cam e le più ovvie indignazioni, ma appunto la continua presenza di Weiwei sul campo, le contraddizioni viventi che porta su di sé (povertà e tecnologia, discrezione e voyeurismo, distacco documentaristico e coinvolgimento emotivo), il tutto congelato in quei due minuti in cui al confine fra USA e Messico registra di nascosto, lontano da una cinepresa, il suo dialogo con un militare, e poi chiede, sempre in scena, alla sua troupe, se hanno registrato tutto, suscitando un'imprevedibile ilarità.
Non si capisce se Weiwei raffiguri il mondo o lo sfrutti in una sorta di sgraziata e(arth)xploitation, ma è certo che Human Flow sopravvive alle sue mani come un oggetto alieno interessante forse per motivi che Weiwei non poteva nemmeno immaginare, lontano da leziosismi à la National Geographic. Non così essenziale ma meritevole di attenzione. In concorso a Venezia 74.
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