Regia di Valentina Pedicini vedi scheda film
Un incubo infantile. Una vergogna della "civiltà". Una storia che, doverosamente, vede la luce, ma fa fatica ad attraversarla.
Sono settecento. Le storie vere a cui si ispira questo film. Il racconto si fa lento, procede con passi attentamente cadenzati, perché occorre non fare torto a nessuna di esse, ogni parola deve essere accuratamente misurata, per racchiudere tutti i significati richiesti. L’effetto è straniante, come si addice ad un luogo abitato dalla follia. La recitazione è giustamente artificiosa, come assorta in meditazioni sul possibile senso del copione, ed è esattamente quanto dovrebbe accadere, nel momento in cui un attore iniziasse a dubitare se la realtà da interpretare non sia essa stessa una finzione. Nei locali dell’ex orfanotrofio svizzero, la pazzia dei bambini era presunta, forse pretesa, certamente decretata d’ufficio. E quindi messa in scena, con i fantasmi delle divise da malati e il teatro degli orrori delle terapie di riallineamento sociale. Omologazione, si chiamerebbe oggi. Uno sradicamento di decine di figli di nomadi, di etnia jenisch, strappati ai genitori durante cinquant’anni del secolo scorso, per essere inseriti in famiglie “normali”. Una cultura da cancellare, una tradizione da seppellire. Il film di Valentina Pedicini trae spunto dalle testimonianze autobiografiche della scrittrice Mariella Mehr, la cui infanzia è stata segnata da quell’atroce esperienza di internamento forzato. Intorno a quell’impensabile aberrazione, i discorsi e i gesti si bloccano, come germogli interrotti sul punto di sbocciare. Una ragazzina ha atteso invano la stagione della fioritura: è stata estirpata da giovane pianta, trasferita in un terreno sterile ed estraneo, in cui non ha potuto in alcun modo attecchire. Non si è sviluppata in lei la fluidità del dire e del fare, che si acquisisce soltanto potendo crescere liberi. Anna è rimasta un pupazzo approssimativo e rigido, come la bambola di stoffa che da piccola ha amato fino a ritrovarsi con il cuore spezzato. Anna, da adulta, continua a praticare divertimenti cupi e innaturali, unica fuga da una disciplina che l’ha resa autorevole e rispettabile, ma senza procurarle alcuna gioia. Al comando di quella compagnia di persone anziane, attuali ospiti della struttura, detiene un potere che le fa solo male, come un privilegio dal contorno ruvido e tagliente, che è doloroso impugnare. Il suo personaggio continua a ritrarsi dal proprio ruolo, ad assumere pose goffe ed instabili, come per usare un coltello tenendo distante la mano. C’è il mondo, da qualche parte, là fuori, ma qui, intanto, c’è lei, eternamente tentata di fuggire dietro le quinte di quell’imbarazzante spettacolo. Dal sipario spunta solo la testa, acconciata e accigliata come la caricatura d’antan di una bimba pestifera, mentre il corpo rimane nascosto, attaccato a un passato che ne ha impedito la maturazione. Il confronto con la sua ex psichiatra, ora divenuta sua assistita, si svolge dentro questa cornice senza paesaggio, che ricalca fortemente i contorni delle figure e le mantiene a distanza, come per sottolineare la natura spinosa del dialogo. Limpido e trasparente è, dentro il distillato linguistico, il colore dell’allucinazione vissuta, rievocata, dibattuta e attualizzata. Ciò che è successo ieri risuona nitidamente nell’oggi, nelle stanze in cui il tempo si è come fermato: adesso, come allora, sono popolate da anime che hanno perso l’orientamento dentro il presente, per navigare in un passato che, a narrarlo, sembra davvero una fiaba grottesca. Anna continua ad essere la protagonista sbagliata di tutte queste avvilenti fantasie. Lei, che qualcuno ha cercato in tutti i modi di rendere uguale, insisterà per sempre a immaginarsi diversa, arcana e bizzarra, pur di distinguersi da quella stessa diversità che la legge ha bollato come una patologia.
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