Regia di Michel Blanc vedi scheda film
Vicissitudini e solitudine di un "french gigolò" a Londra. Buona regia di Michel Blanc ed ennesima grande prova di Daniel Auteuil.
La trama è quella che ho riassunto nella scheda. Interprete di non pochi grandi film francesi, Michel Blanc si è messo dietro la macchina da presa in sole quattro occasioni, realizzando pellicole di sicuro interesse come “Grosse fatigue” (“Il sosia”) nel 1994 e “Embrassez qui vous voudrez” (“Baciate ch vi pare”) nel 2001. Tra i due, spunta nel 1999 questo “Mauvaise passe” e, anche in questo caso credo di poter dire che il bersaglio è centrato. Merito in primo luogo di Daniel Auteuil, attore polimorfo, qui nei panni di Pierre, un “french gigolò” assai distante dall’eleganza e la sicurezza di sé del suo omologo americano Richard Gere nel film di Paul Schrader. Il suo personaggio è molto più dimesso, non resta coinvolto in alcun omicidio, ma vive una profonda crisi esistenziale preesistente al mestiere che ha cominciato a svolgere quasi per caso. E’ un uomo solo con alle spalle un matrimonio fallito, un figlio con il quale non è in grado di comunicare e con quel mal di vivere tipico di molti soggetti giunti al tramonto della loro giovinezza. Solo resta in realtà anche quando incontra e comincia a frequentare una escort che sembra offrirgli l’occasione di un rapporto di reciproca fiducia, stabile e di mutuo rispetto. Pierre si lascia sopraffare dai ritmi e dalla continua finzione della sua attività, ricorre alle droghe più ovvie per tenere duro (mi si perdoni il gioco di parole), si perde in un vortice di squallidi rituali e relazioni false. Una parte di lui è evidentemente ancora legata al suo passato, ma quando per un momento si ritrova confrontato alla moglie e al figlio, è come se qualche cosa si fosse irrimediabilmente rotto nella sua capacità di comunicare, come se perdesse l’ultima occasione di rapportarsi agli altri.
Benché vivace e scorrevole nello svolgimento, il film di Michel Blanc è triste, descrittivo e non didascalico, racconta un percorso senza via d’uscita. La Londra in cui è ambientato non è attraente, è illuminata da fredde luci al neon e appare tutt’altro che accogliente. Contrariamente a quanto ci si aspetterebbe, le numerose clienti del “toy boy” non sono signore appassite all’alba della vecchiaia, ma donne mature, alcune di discreta bellezza, mosse probabilmente da una solitudine interiore che le accosta al loro finto cavaliere. Più che curiosità o voyeurismo, ispirano nello spettatore un senso di perplessità, ma anche di malinconia. Michel Blanc mostra e non giudica, scruta i suoi personaggi senza moralismi, impone al protagonista tempi che non lasciano il tempo di pensare, lo sommerge di avvenimenti di fronte ai quali è arduo tenere il passo.
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