Regia di Paolo Genovese vedi scheda film
Il versante dialogico è limato con riguardo, ma rispetto a Perfetti sconosciuti l'attendibilità dell'intreccio si smembra sempre più.
The Place (2017): Paolo Genovese, Valerio Mastandrea
È il diavolo? È un angelo? È un mostro che dà da mangiare ai mostri? È un uomo che approfitta del malessere di altri uomini o che vuole lenirlo? È solo l'aguzzino di una più vasta organizzazione o lavora in solitaria? Nel far proprio lo spunto a fondamento della serie americana The Booth at the End, Paolo Genovese non chiarifica nulla di questo personaggio barbuto e torvo in volto (Valerio Mastandrea). E in tale mistero stanno il fascino e la debolezza della sua figura e dell'intero film. La macchina da presa di Genovese allontana dall'inizio alla fine l'eventuale monotonia causata dalla ristrettezza di un luogo scenico (il tavolo del bar a cui siede Mastandrea) che virtualmente si dilata coi colloqui di costui con Marco Giallini brutale poliziotto e pessimo padre, Rocco Papaleo meccanico squilibrato, Alba Rohrwacher sensibile suora, Vinicio Marchioni nervoso papà di un ragazzo malato, Sabrina Ferilli gioviale cameriera... Il versante dialogico è limato con riguardo, ma rispetto a Perfetti sconosciuti l'attendibilità dell'intreccio si smembra sempre più (i buchi del copione del regista e Isabella Aguilar si trasformano presto in voragini), la promettente intenzione di puntare i riflettori sugli anfratti più repellenti dell'essere umano che vive in società si stempra nel buonismo dei troppi happy end e la chiusa è abbastanza tirata via. C'è da dire, però, che il cast è strabiliante.
Musica firmata da Maurizio Filardo e arricchita da un inedito (The Place) di Marianne Mirage.
Film DISCRETO (6) — Bollino GIALLO
VISTO al CINEMA
The Place (2017): locandina
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Condivido la tua riflessione. Per quanto mi riguarda lo spettatore non viene mai definitivamente indirizzato verso l'ottica giusta con cui giudicare il film (tanto meno con quel finale), rimanendo in un limbo in cui tutto sembra tanto reale e palpabile quanto totalmente astratto. Inoltre, dopo la visione della serie da cui è "tratto", non posso che giudicarlo ancor più negativamente: un mero copia incolla. E vogliono pure farlo passare per film impegnato e autoriale. Vabbè. Genovese deve solo ringraziare di essersi dotato di un cast ineccepibile. Grazie ancora per il commento e saluti.
Esattamente. Il cast alla fine riesce a salvare in extremis la baracca, che sarebbe potuta naufragare nel mare delle troppe inverosimiglianze. Difatti è la credibilità delle interpretazioni a far fluire le riflessioni sul mondo di oggi, sulla contrapposizione bontà/crudeltà nell'animo dell'uomo sociale, eccetera. Si tratta comunque di un prodotto per metà riuscito e per metà no, perché si resta con la sensazione che un quarto d'ora in più di "chiarimenti" e spiegazioni avrebbe solo giovato al risultato.
Saluti anche a te! :-)
Forse preferisce lasciare alcune interpretazioni allo spettatore (lo fanno da decenni registi ben più blasonati perchè non dovrebbe farlo Genovese).
Mi sembra che si cerchi troppo la giustificazione a tutto perchè ci fa comodo che ci sia più che confrontarci con le nostre impressioni personali.
Ora ti rispondo, spero di non dilungarmi ma mi preme di specificare meglio quanto dico nella recensione.
Da un certo punto di vista, il grande fascino del film è basato proprio sul "non detto" che attraversa lo sviluppo delle varie vicende. Si aggiunga che quest'aura di mistero è anche la chiave che Genovese offre allo spettatore perché possa a sua volta riflettere su ciò che accade nella società reale (le premesse di ogni storia sono più che mai realistiche: una suora che vorrebbe riacquistare la perduta fede in Dio, un padre che vorrebbe che il figlio guarisse dal cancro, un cieco che vorrebbe di nuovo vedere, un figlio che detesta il padre e che perciò vorrebbe non vederlo mai più, eccetera). Però, in questo caso, il fatto che Genovese non faccia luce sugli aspetti risolutivi e cruciali che portano le varie trame a una lieta fine fa parecchio dubitare sulla coerenza stessa di ciò che si racconta. Difatti, TUTTE le trame finiscono bene tranne una, e questo non è plausibile: com'è possibile che la suora ritrovi la fede in Dio, che il cancro del ragazzino regredisca, che il cieco capisca che in fondo potrà vedere con altri occhi (quelli dell'amore) e che il figlio capisce di voler bene al padre che ha sempre odiato NEL MEDESIMO FILM? Io non l'ho saputo spiegare, come non mi so spiegare come possa una vecchia signora italiana sugli ottanta un po' timida e fragile a livello emotivo (il marito le sta morendo di Alzheimer) entrare in un bar con una bomba in una valigia. Quindi, a mio personale avviso, dedicare un quarto d'ora in più a un'accurata giustificazione di questi happy end non avrebbe fatto male alla coerenza del meccanismo filmico. Per me, sarebbe bastato anche solo far capire che Mastandrea è una specie di angelo/creatura veggente, oppure, al contrario, che più storie finissero in tragedia, giusto per evitare l'eccesso di buonismo e l'inverosimiglianza. Tutto qua.
Grazie per il tuo prezioso interessamento, che mi ha permesso di approfondire più a fondo la questione. Saluti! :-D
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