Regia di Paolo Genovese vedi scheda film
La differenza c'era già in partenza. Se "Perfetti sconosciuti" era farina del proprio sacco, capace di valorizzare un'idea non solo originale ma anche in linea con alcuni degli elementi basilari dei rituali contemporanei, "The Place" nasce come copia di un lavoro altrui, prodotto derivativo, tratto da una serie statunitense - "The Booth at the End" neanche troppo popolare, eppure in grado di solleticare la fantasia di Paolo Genovese, qui alle prese con il difficile compito di far dimenticare, o forse, chissà, di riproporre in altre vesti la fascinazione del film precedente.
Ammesso e non concesso che il rifarsi all'esistente sia un difetto, vale la pena ricordare che a suo tempo autori del calibro di Alfred Hitchcock furono capaci di fare proprie e valorizzare al massimo livello opere già scritte e in qualche caso dimenticate, e che, in singolare continuità, uno come Gus Van Sant aveva portato alle estreme conseguenze questa procedura addirittura girando un vero e proprio calco di uno dei capolavori del genio inglese ("Psycho", 1960). Senza contare - e questa è proprio l'ultima considerazione in tal senso - che una delle caratteristiche del cinema contemporaneo, quella che identifica un lungometraggio come appartenente al cosiddetto mainstream, è appunto il riutilizzo sistematico di forme ampiamente collaudate (prequel, remake, sequel, etc.).
Genovese da parte sua non si nasconde dietro un dito ma fin dalla campagna pubblicitaria, centrata in parte sulle stesse facce presenti nel lavoro del 2016, e nell'evidente scelta di riproporre lo stessi tipo di concentrazione spaziale, collocando la vicenda all'intero di un unico ambiente (il bar che dà il titolo al film) in cui ritroviamo il coro di personaggi che danno vita alla storia (come capitava in "Perfetti sconosciuti"), dimostra di volersi muovere ancora dalle parti di una teatralità esibita non tanto nel modo di filmare la scena, ripresa con disinvolta mobilità, quanto nel primato attribuito alla parola e alla performance degli attori. D'altronde, la trama di "The Place", sviluppata intorno al personaggio di Valerio Mastandrea, capace di realizzare ogni possibile desiderio umano e per questo interpellato da un certo numero di avventori disposti a sottoporsi all'ordalia delle opzioni da lui propostegli, altro non è che un confronto dialettico tra le parti in cui l'azione viene restituita esclusivamente attraverso il dialogo. Ancora una volta lo sguardo del regista è rivolto alla parte più indicibile dei sentimenti (e delle azioni) umani, anche se, in questo caso, il meccanismo non gioca a nascondino con lo spettatore, rivelandogli fin da subito ciò che si nasconde sotto l'apparente austerità del ruolo sociale. I tipi scelti da Genovese (la suora, il poliziotto, il padre di famiglia, il cieco, la pensionata e altri) si mostrano immediatamente per quello che sono, disperati a tal punto da non farsi scrupolo di accettare le condizione, spesso draconiane, imposte, dal misterioso individuo, anche quando si tratta di oltrepassare qualunque limite morale. A creare lo scarto rispetto al modello di "Perfetti sconosciuti" e, in generale, all'intera filmografia del cineasta romano, interviene la scelta di un tono che si allontana dai sorrisi e dall'istrionismo tipico della commedia, per avvicinarsi a una dolorosa drammaticità di cui Valerio Mastandrea incarna a perfezione la maschera. Unico tra gli attori a essere presente dalla prima all'ultima scena, l'interprete di "Fai bei sogni" recita in modo che sia il suo sguardo a farsi carico delle scelte dei suoi questuanti, caricandosi di un'afflizione che è tanto più onerosa quanto il suo personaggio, laconico e in apparenza impassibile, riesce a dissimularne le conseguenze. Lungi dal discriminare il movente che spinge i personaggi a farsi oggetto dei ricatti del mefistofelico faccendiere, Genovese non è interessato a entrare nel merito delle singole vicende, tutte più o meno riportate con un taglio piuttosto abbozzato, quanto nel riprodurre una tendenza comune all'intero consesso umano per spiegare la quale il regista ricorre all'espediente fantasy, rappresentato dal carisma di Mastandrea, capace di spettacolarizzare il prodotto e nel contempo di facilitarne gli snodi narrativi. Più del coraggio di sperimentare, almeno per lui, un genere poco frequentato, "The Place" deve essere giudicato per il suo tentativo di coniugare profondità di riflessione e piacevolezza dell'insieme. Da questo punto di vista i risultati fanno registrare qualche cedimento, soprattuto quando nella parte finale si tratta di arrivare al dunque. Nel complesso l'esito è comunque positivo soprattutto in considerazione della prova degli attori tra cui si distinguono Sabrina Ferilli, quantomai sobria, e, soprattutto, Valerio Mastandrea in versione kieslowskiana.
(pubblicata su ondacinema.it)
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