Regia di Gabriele Muccino vedi scheda film
Al cinema tutto bene, grazie.
Almeno finché, dissolti i trailer di rito, non spunta il fantasmagorico cinema di Muccino.
Urlato/urlante con brio isterico/urticante a trazione interiore e iniezione letale.
Il “film”: riunione di famiglia (ricca) in interni (pigri) ed esterni (assolati) contenente tutti – ma proprio tutti tutti – i luoghi comuni, gli stereotipi, i cliché, i mezzucci e i teatrini e le dinamiche che tal soggetto induce.
Narrativamente, un rimasticamento unt(uos)o, indigeribile di situazioni straviste.
Esercizio: pensatene una qualsiasi. C'è.
Marito fedifrago: presente. Parente “morto di fame”, coatto e “vero/verace”: presente. Moglie possessiva-nevrotica: presente. Figlio scapestrato y artista (e quindi il cocco di mammà): presente. Moglie che finge di non sapere delle avventure del coniuge: presente. Mamma della grande famiglia apprensiva e svampita (minchia, la Sandrelli, paro paro alle ultime centodue performance): presente. Adolescenti in amore: presenti. Vecchina rintronata: presente. Eccetera. Eccetera.
Immaginate, ora, dove possa condurre cotanto esplosivo, immaginifico côté mucciniano.
Litigi, sotterfugi, tradimenti, rivelazioni, ricatti, pianti e piagnistei, segreti che vengono a galla come cilindriche feci nell'azzurro mare, innocenti evasioni (l'amore tra i due giovanissimi ha lo spessore della carta di giornale, di quella di scarsa qualità) e criminose intenzioni, turbinii lessicali e approdi dialettali, prese di coscienza e sensi di colpa; e colpe sepolte nella sabbia per il bene superiore dell'unità della “famiglia”.
Che peloso guazzabuglio.
Un armamentario sentimental-esistenziale così povero e balordo, piatto, incapace della benché minima riflessione che non sia copiosa derivazione e deprivazione di un qualsiasi livello di lettura successivo, che lascia attoniti.
Se non fosse Muccino.
Ma poi.
Gli isterismi. Le urla. Gente che s'agita, s'accapiglia, si spinge, s'insulta, s'incazza, ulula e raglia, s'incunea indomita tra siparietti abbaia(n)ti e patetici squarci strillati.
Solarino: urla. Appena la chiamano in causa.
Accorsi, il poeta perdigiorno: urla (la sua inadeguatezza attoriale, probabilmente).
Gerini: urla. Minchia se urla. Occhi spiritati, saliva pronta all'assalto militarizzato, ugola infuocata. D'altronde c'ha il marito (Ghini) a carico con l'Alzheimer (ecco, dall'elenco di cui poc'anzi: poteva mancare il componente malato?).
Favino: urla. In un sol colpo, ex moglie (Solarino), moglie fuori di testa attuale, due figlie nate dai due matrimoni. E che caspita. Il crescentinicidio è un attimo.
Crescentini: urla. Non fa altro. Ad una certa, il Favino di cui sopra, all'ennesima dimostrazione d'assurda isteria irrefrenabile, le fa: «Hai rotto il cazzo!» (seguono tipo quattordici punti esclamativi). Alleluia. Sì, il crescentinicidio è giustificato, dai. Peccato si fermi.
Impacciatore: urla. Chi l'avrebbe mai detto.
Tognazzi: urla.
Riccardo Cocciante per mezzo del suddetto sudaticcio Tognazzi: urla. Come non ci fosse un domani. Come non ci fosse un altro Muccino ad attenderci, ghignante, al varco.
Michelini incinta e coatta: urla (e limortaccisueggia). Che due palle. E che cosce.
Marescotti: urla. Pure lui. Ma dai.
L'isola (che c'è, che c'è, altro che ridicole pretese metaforiche): urla. Perlopiù la sua spettacolare “ischianità”. E grazie al piffero magico.
La mdp: urla. Per far sentire la sua presenza, no? Irrilevante e insensato l'abuso di panoramiche e svolazzi, ma tant'è. L'esperienza americana sarà pur servita, no?
La trama: urla. La sua pochezza. Ma s'è già detto.
I bambini non urlano. Mai.
Il trailer: urla. Porca zozza (che uno pensa: «beh, mica sarà così tutto il film?» Minchia sì. L'onestà tutta nel trailer).
La pubblicità (Sanremo eccetera): urlata.
Ma tanto, «andrà tutto bene». L'espressione-sentenza, ripetuta nelle varie declinazioni, più e più volte. Così. Per darsi un tono. Autoriale. Mah.
Al cinema, sì, tutto bene.
Ai titoli di coda.
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