Regia di Deborah Haywood vedi scheda film
Due anime in technicolor dentro un mondo in bianco e nero: la luce vince, ma solo per dare risalto al tormento.
Puntaspilli. Un concentrato di bellezza innocente, semplice e rudimentale, che accoglie dentro sé le stille di una banale atrocità. Come un mare di aghi crudelmente infilzati in un variopinto oggettino di panno. Anche il disadattamento sociale può trovare un soffice nido, lasciandosi morbidamente avvolgere da un rivestimento estetico caramellato, stucchevole come le tinte confetto di un candido kitsch infantile. Lyn e Iona, madre e figlia sole al mondo, oltre che uniche, nei rispettivi generi, irradiano l’ambiente con la luce iridata delle favole, delle torte di compleanno decorate, delle collezioni di ninnoli e pupazzi: sono loro i personaggi stravaganti dentro un debordante scenario da casa delle bambole, caricaturale proiezione dei loro animi perennemente dediti all’incantamento. Questa è l’intonazione da musica di carillon che la regista Deborah Haywood ha voluto imprimere al suo straziante, finto gioiellino: un castone a buon mercato in cui inserire un dramma in versione bigiotteria. La gemma-giocattolo inizia presto a riverberare intorno a sé, come una girandola multicolore, i riflessi caleidoscopici di un’emarginazione cantata a due voci, e variamente sfaccettata: la crisi della pubertà di un’adolescente, l’angoscia repressa della vittima del bullismo, il complesso di inferiorità di una donna dalle forme disordinatamente prorompenti, l’incomprensione generale che circonda il diverso. Il contrasto insanabile fra il dentro e il fuori – fenomeno alla base di ogni tragedia – si converte qui in una forma di energia, che riempie lo spazio di immagini surreali, di per sé allegre e scanzonate, però dolorosamente intruse in un contesto in cui prevalgono la malizia, la perfidia, perfino il sadismo. L’eccesso di ingenuità è il divertente specchio del luna park in cui si riflette il suo contrario: l’incontro fra gli estremi opposti dà vita ad un mostruoso teatrino, popolato da una umanità complessivamente sfigurata, con buoni e cattivi impegnati nella stessa goffa danza delle streghe. Il film abbaglia, fino allo stordimento, con le sue coreografiche dissonanze, che, nel falsare la realtà, ne evidenziano artisticamente i risvolti più aspri. Le dinamiche psicosociali che determinano l’amaro sviluppo della storia si delineano come movimenti attutiti, declinati in cadenze melodiche, via via meno gradevoli, però sempre obbedienti ad una misteriosa armonia, che unisce il bello e il brutto nello stesso visionario carosello. L’analisi, la denuncia, la partecipazione emotiva alla triste successione degli eventi si fondono in una filastrocca dagli accenti agrodolci: la riflessione è costretta a retrocedere, senza sparire del tutto, come solitamente accade, di fronte al dire altro, al mezzo dire di una narrazione poetica. L’artificio è palese, e diligentemente eseguito, per tutta la durata dello show. Lo sforzo è meritorio e l’effetto può dirsi riuscito, benché nei limiti di una maestria che poco o nulla ha del genio. Certo sorprendente è la confezione fantasy, benché mutuata da un genere esistente: una veste non originale, eppure sfacciatamente fuori luogo, come un costume di carnevale preso in prestito per un’occasione sbagliata.
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