Regia di Pierre Granier-Deferre vedi scheda film
"Polar" duro e violento quanto appassionante. Jean Gabin domina il film da par suo nelle vesti del patriarca autoritario e dispotico in una Francia rurale d'altri tempi. Ideologicamente discutibile, ma ottimo cinema.
Pierre Granier-Deferre, cineasta affezionato al classico cinema di genere e proprio per questo avversario dichiarato della “Nouvelle Vague”, negli anni ’70 ha realizzato alcuni film ragguardevoli come “L’evaso” (“La veuve Couderc”) nel 1971, “Noi due senza domani” (“Le train”) nel 1973 o “Dai sbirro” (“Adieu, poulet”) nel 1975, solo per citare immodestamente tre titoli che ho recensito. Il suo ingresso nella decade lo effettua con “Il clan degli uomini violenti”, in originale “La horse”, che in gergo significa eroina. Intorno alla sparizione di un consistente quantitativo di eroina si articola infatti questo solido e cruento “polar”, dominato dalla presenza carismatica di un Jean Gabin che non deve compiere il minimo sforzo nel dare volto e voce al patriarca Auguste Maroilleur, proprietario di un’azienda agricola a conduzione familiare che dirige con piglio autoritario. Oltre che dalla moglie e dalle due figlie, è coadiuvato dai due generi e da un fattore addetto alle mansioni che avrebbe voluto destinare a Henri, suo unico nipote maschio. Avendo scoperto che Henri è implicato in un traffico di stupefacenti, distrugge l’eroina trovata in un cassetto e abbatte con un colpo di fucile l’individuo venuto a prenderla in consegna. Ne seppellisce il corpo e ne affonda l’automobile in uno stagno. Per rappresaglia, la gang dei trafficanti gli incendia rimessa e fienile, massacra oltre venti capi di bovini investendoli con un fuoristrada e, ultimo affronto, ne violenta la nipotina. Insieme ai due generi, al fattore e a Henri, l’anziano patriarca riesce a sterminare implacabilmente l’intera banda. Sui vari episodi la polizia apre ovviamente un’inchiesta, che tuttavia resta lettera morta poiché, nel corso degli interrogatori, l’intera famiglia non apre bocca, facendo quadrato intorno al patriarca. Rimessa incendiata e bovini accoppati? Incidenti. La strage dei trafficanti? Legittima difesa. Il caso è chiuso ed ognuno torna a casa, compreso Henri, ormai consapevole che al nonno-padrone non ci si sottrae.
La violenza e la brutalità rappresentate nel film non lasciarono certo indifferenti gli spettatori più sensibili. E’ un racconto di poche parole e molta azione: ieratico il patriarca, laconici e senza peli sulla lingua gli aggressori. Gli altri personaggi hanno ben poco da dire o poter dire. Il tutto è poi impreziosito dalla descrizione scenografica di un contesto agrario ormai d’altri tempi, nonché dalla sempre suggestiva visione dei paesaggi normanni. Pierre Granier-Deferre, che successivamente saprà fare di meglio, dimostrò comunque di essere un regista dalle notevoli capacità, così come Jean Gabin conferma, all’età di 64 anni, di essere ancora all’altezza del suo mito. Resta nondimeno l’amaro in bocca nel vedere tanto talento messo al servizio di una tesi di fondo assai reazionaria, dall’uso distorto del concetto di legittima difesa alla percezione dell’autoritarismo che in situazioni drammatiche resterebbe pur sempre la miglior soluzione per risolvere i problemi. Non ritengo tuttavia necessario giudicare il cinema per i suoi contenuti etici. Come dimenticare le dispute ideologiche suscitate in determinati ambienti all’uscita di pellicole come il primo “ispettore Callaghan” con Clint Eastwood nel 1971 e il primo “giustiziere della notte” con Charles Bronson nel 1974? Da ragazzo, li vidi quasi di nascosto dal mio entourage… Un film può benissimo essere non condivisibile, ma ugualmente apprezzabile. “La horse” ne è un valido esempio.
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