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Nostalghia

Regia di Andrej Tarkovskij vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Nostalghia

di ed wood
10 stelle

Certe volte faccio fatica a comprendere le certezze sbandierate dalla critica cinematografica. Per quest’ultima, “Andreij Rublev” sarebbe il massimo esito dell’arte tarkovskijana, laddove “Nostalghia” sarebbe invece un “minore”, una lieve caduta nel poeticismo e nella maniera. Perché, mi domando. L’unica colpa che si può imputare al penultimo film del compianto maestro è quella di essere, in qualche misura, derivativo del predecessore “Stalker”, a mio parere il vero capolavoro del regista e una delle vette del cinema d’autore di tutti i tempi, nonché opera di straordinaria influenza sul presente. Capirai che difetto, poi, ricalcare atmosfere, toni, stile e contenuti di un film di tale statura! D’altra parte, la grandezza dei maestri non è forse quella di “fare sempre lo stesso film”, di ripetere se stessi senza mai perdere la forza, l’intensità e soprattutto l’autenticità di ciò che esprimono?

 

“Nostalghia” racchiude l’essenza del cinema di Tarkovskij, il nocciolo della sua riflessione esistenziale e poetica, il pieno dispiegamento dei concetti fondamentali della sua idea di mondo e di arte: il tutto con eccezionale ispirazione creativa e lucidità espressiva. Un uomo e una donna; il mistero della Fede contrapposto alla coscienza dell’intellettuale; reminiscenze di una infanzia lontana ma sempre presente, continuamente evocata dalla fascinazione per luoghi sconosciuti ma al contempo familiari; su tutto, la pazzia di un uomo semplice, di un umile che vorrebbe salvare un mondo portato allo sfascio dalla mente razionale. Sembrerebbe tutto caotico e velleitario e invece la mano di Tarkovskij rende il discorso di una semplicità e una trasparenza disarmanti, certamente senza svilirne la profondità. Il cinema del regista sovietico attraversa strade impervie per giungere ad esiti nitidissimi; oppure, viceversa, racchiude in immagini di sconcertante immediatezza una complessa gamma di sentimenti.

 

E’ un film in cui la sua proverbiale “scultura del tempo” si articola in un pugno di articolate sequenze d’antologia, che sostanziano la totalità  dell’immagine-tempo che “abita” i luoghi ripresi (e trasfigurati). Vale la pena di ripercorrerle in ordine. La visita alla Madonna del Parto ipnotizza per come riesce a creare un’atmosfera di sacralità senza imbalsamarla in una iconografia stantia, ma immergendola in un discorso dialettico in cui al tema ricorrente della Fede si affianca quello, altrettanto problematico, della Donna. Il primo sogno dello scrittore, dove la nostalgia di casa si fonde con l’idea di una paternità, parallelamente alle figure del passato (la moglie) che si fondono con quelle del presente (la traduttrice, possibile amante). L’incontro dello scrittore con Domenico, il “pazzo”, in una “casa abitata dal Tempo”, dove la musica extra-diegetica di Beethoven viene udita da entrambi i personaggi, in un fuggente attimo di comunione spirituale. La predica scorata di Domenico in una piazza popolata da soli “pazzi”, momento di toccante e disperata preghiera. E poi il finale, utopistico, con l’intellettuale che finalmente, compresa la necessità di un sacrificio e della fiducia in una missione di vita che superi il proprio egoismo e si apra agli altri, accetta follemente la richiesta di Domenico e attraversa una piscina tenendo in mano una candela, sublime allegoria dell'esistenza, di tutte le esistenze possibili.

 

 

 

 

 

 

E’ tutto così poetico e tutto così semplice, come negli Haiku giapponesi e nelle Icone russe del Trecento, le due forme d’arte più amate da Tarkovskij: i passerotti che escono dal grembo della Madonna, invocati da un salmo carico di senso; un uomo che accarezza il suo cane; due donne che si abbracciano; una candela che rischia di estinguersi, esposta al vento e all’umidità. Sono immagini di bellezza pura, assoluta, e di significato tanto abissale quanto umanissimo. Sono raffigurazioni di sentimenti, di stati d’animo.

 

L’idea forte, a livello figurativo, di questo film, ribadita in modo forse addirittura più efficace che in “Stalker”, è quella della compenetrazione fra interno ed esterno. In “Nostalghia”, gli uccelli volano e cantano nello spazio cupo e claustrofobico di un santuario; le finestre delle stanze sono sempre spalancate; piove frequentemente negli spazi coperti e i luoghi di culto si allagano. Ancora: lo scrittore spalanca la porta della bottega di Domenico e trova un mondo, una vallata affine a quella di casa sua, che per mezzo di un carrello in avanti deborda dai confini settati dall’architettura domestica. Allo stesso modo, ma con un moto inverso, nel finale vediamo il protagonista seduto col suo cane nel prato di casa, ma è solo un’illusione: un carrello all’indietro rivela un colonnato di arcate che include il prato, come se la cultura assorbisse la natura, come se la ragione custodisse l’istinto. Come non rivedere, in questo movimento rivelatore, il finale di Solaris, con la casa, la famiglia e l’infanzia del protagonista che altro non erano che il frutto della propria mente? Quest’ultima immagine si presta a letture sia pessimistiche (il sacrificio dell’intellettuale è destinato a rimanere inutile, perché la propria autenticità emotiva sarà sempre messa sotto scacco dalla ragione) sia ottimistiche (grazie al sacrificio, ragione e sentimento, intelletto e cuore possono convivere nel medesimo mondo, riflesso in una pozza d’acqua). 

 

 

Al di là delle possibili letture, resta questa idea di un “fuori” che si fonde con un “dentro”, come di un “ieri” che si fonde con un “oggi”, formando una “Zona” che altro non è che la dimensione onnicomprensiva della propria coscienza (e della propria anima). E’ qui che si fonda quel cinema della “ubiquità” che negli ultimi anni pare voler dare una spallata spiritualista ad un post-modernismo oramai sterile e moribondo. D’altra parte, questo è forse il film di Tarkovskij più impeccabile ed ispirato a livello di messinscena, come dimostrano anche scene apparentemente minori come il primo incontro con Domenico, risolto con un paio di piano-sequenza semi-soggettivi che riprendono i bagnanti della piscina, presi nei loro discorsi vacui: una pagina di cinema che quasi batte Anghelopoulos sul suo stesso piano.

 

Una fotografia particolarmente ispirata, che indovina toni e sfumature, desaturando il colore nei momenti “nostalgici” e restituendo l’immagine di un’Italia mai così uggiosa e livida, mai così vicina ai paesaggi russi, contribuisce all’eccezionale risultato estetico, anche per come valorizza i quattro elementi naturali, soprattutto l’acqua, e per come gestisce l’illuminazione in chiave simbolista. Vale la pena spendere qualche parola sul sonoro, dove qui Tarkovskij supera se stesso. Il rumore dell’acqua che scorre, di un bullone che cade, di un pavimento che scricchiola popolano lo spazio scenico come presenze vive e non solo come mera decorazione sonora; di più: essi si giustappongono extra-diegeticamente ad ambienti a loro estranei, così come il sopraggiungere di una memoria o di una visione estrania un soggetto dal “hic et nunc” in cui si trova. Che dire poi dell’Inno alla Gioia durante il sacrificio di Domenico, con le festose note bruscamente interrotte dalle sue urla laceranti? Pura poesia.

 

“Nostalghia”, forse più di ogni altra opera di Tarkovskij, è un film da sentire e da vivere, prima ancora che da comprendere ed analizzare. Un altro capolavoro, altrochè.

 

 

 

 

 

 

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