Regia di Sofia Djama vedi scheda film
Una storia tenue. Forse smarrita. Forse in attesa.
Le vittime della ritrovata libertà. L’Algeria, uscita da due guerre civili, si scopre umiliata e stanca. La normalità è impossibile, nell’odierna apparenza di pace. Gli adulti sono tanto attaccati alla loro terra quanto delusi dalla sua crudeltà. I giovani, intanto, rivolgono lo sguardo lontano, verso il miraggio europeo o nel fondo dell’abisso integralista. Il clima è tiepido, l’aria è ferma, il cielo è vuoto, ma il tempo non è sereno. L’ordine ha l’aspetto asciutto e corrugato di una cicatrice. La luce è ovunque uniformemente grigia, nei salotti delle serate tra vecchi amici borghesi e nei bassifondi dove gli adolescenti si incontrano per fumare spinelli o parlare di Maometto. La trasgressione è un discorso che nasce vecchio, intriso di rancore, immerso in un torpore che non conosce alcuna speranza. Questo film, amalgamato con l’assenza di idee e di voglia di combattere, si rigira tormentosamente in un sussurro pronunciato a vuoto, al tavolo di un ristorante, nella camera dei ragazzi, per le strade semideserte di persone ma affollate di finestre e balconi. Non si direbbe che la storia sia passata da qui, se non fosse per le tante ferite invisibili, che parlano da dentro, soprattutto con la negazione, specialmente attraverso il silenzio. Un taglio alla gola coperto da un foulard. Un versetto del Corano tatuato sulla schiena. Lo strazio è scritto nei corpi, e si rinnova ancora, ogni giorno, nei ventri delle donne sottoposte ad aborti clandestini, che si offrono al dolore per sfuggire ad altro dolore. L’oppressione, una volta cessata la tempesta violenta, si è annidata all’interno degli uomini, che non sanno più se quell’inerzia sia una consapevole espressione di libertà, di disimpegno, di ribellione al comando, oppure una stanchezza imposta da una paura che è rimasta aggrappata all’anima. Non è facile raccontare il romanzo di un nulla che si trascina nell’ombra, provenendo da lontano. Non esistono parole per ciò che in parte sfugge, in parte è tuttora tacitato dalla presenza di un potere ridotto a spettro, e cionondimeno in grado di fare del male. La polizia continua a cercarti. Allah sempre ti osserva. E ciò avviene senza una vera ragione. Anche questo film partecipa alla timorosa reticenza, alla prigionia autoinflitta, alla sottomissione ad un padrone che ha l’aspetto fragile e decaduto, eppure, in un certo senso, infonde una strana forma di sicurezza. Qualcosa di grande si staglia, indistinto, sullo sfondo: il passato ha lasciato il suo monumento opaco e severo. La sua presenza pesa sulla vita di tutti. E nessuno sa come, né perché.
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