Regia di Tim Burton vedi scheda film
Rispetto al naturalismo artificiale e paradossale del Libro della Giungla, la nuova versione dal vivo di un cartone Disney propone una scelta simmetrica e opposta, con l’evidenza dell’artificio che, peraltro, ben si abbina sia all’immaginario burtonianto in genere che alla particolare ambientazione circense. Il regista non fa, infatti, niente per mascherare l’esuberanza rosa dei cieli striati, né l’impossibilità meccanica delle riprese (elemento che è ormai diventato norma nel cinema contemporaneo) o la necessaria sospensione dell’incredulità di fronte al volo del piccolo pachiderma, cercando la via del sogno e della favola rispetto alla verosimiglianza a tutti i costi. È, anzi, nell’affabulazione che Burton ha sempre trovato la propria chiave interpretativa ed espressiva del mondo, nel fascino subito e, di conseguenza, proposto, della deviazione più o meno grande dalla norma, nel cercare e nel far trovare ai suoi personaggi una pur diversa normalità, che sia anche sinonimo di felicità e appagamento.
Dumbo si inserisce perfettamente in questa conclamata ricerca della sincerità a dispetto del realismo, accordandosi del tutto alle note trasognate e satiriche del regista, al tratteggio di un mondo necessariamente bigger than life come quello del circo, abitato, come tutto il resto però, da meschinità e malignità, trasformate qui, soprattutto fuori dall’arena, in maschere evidenti di cattiveria o grettezza, con un sottofondo di crudeltà capitalistica che castra sempre la bontà e travisa il desiderio in ambizione.
E se gli occhioni dolcemente azzurri di Dumbo rimandano all’innocenza primordiale di un E.T., così coma la sua intelligenza nel capire ‘al volo’ le umane intenzioni e la predestinazione nel potersi librare verso il cielo, la sua nascita e il disvelamento delle inusitate abilità svolazzanti ripercorrono il cammino di autodefinizione e determinazione dei moderni supereroi, con la comprensione dell’innesco che manifesta i ‘poteri’ (la piuma, ironico simbolo di leggerezza per un elefante) e la progressiva capacità di controllarli. Ma, come Batman, le cui origini sono scritte nel dolore della scoperta del mondo, anche Dumbo è un supereroe anomalo, dedito alla ricerca di una personale giustizia ma diversa dalle ambizioni di ordine vagamente sociopatiche dell’abitante di Gotham, più giocherellona ed elementare per la sua stessa giovanissima età, l’appagamento primordiale di ricongiungersi con sua mamma.
E di nuovo - o forse da sempre - nel film si forma una famiglia allargata, assemblata dagli affetti e dai sogni in comune, dalla comunione delle singole differenze trasformate in affinità più che dalla riunione di palesi parentele, con bambini che si comportano da adulti e adulti che non sembrano crescere, ad immagine del regista stesso. Perché Tim Burton sempre rifugge - forse anche per scelta - dalla perfezione del cinema più patinato, rendendo infatti teneramente sgraziato il volo dell’elefantino, accendendo di sprazzi cruenti la fiaba animata, lasciando che il pericolo della morte sempre aleggi su tutto, sia nel passato della recente guerra mondiale, con il suo retaggio di menomazioni o di malattie letali, che nella minaccia di fatali separazioni, soppressioni o incidenti che paiono sempre incombere. Nei suoi film i bambini sanno già tutto quello che i grandi devono scoprire, le donne sembrano sempre fatali e ironicamente distaccate, mentre i protagonisti, soprattutto se incarnati da Johnny Depp (ormai incapace di recitare senza qualche orpello a mascherarlo) sono istrionicamente - e spesso ingenuamente - sopra le righe, in un cosmo anomalo e difforme che deve ritrovare un’innocenza ormai sperduta e da tanti depredata.
In questa ricerca della felicità nell’imperfezione, emerge, infine, il realismo magico di Burton, il suo sguardo da spettatore impenitente, affascinato dalla sua stessa messinscena che consiste nella paratassi delle sequenze, nella successione di scene variamente ambientate in quel mondo che ha costruito e che comprende già tutto il film. Quella scenografia portante, contro cui si stagliano e dentro cui si agitano le maschere dei sentimenti incarnati nei diversi personaggi, è il palinsesto necessario alla narrazione, il tendone da circo di uno spettacolo che vi si esaurisce, un universo autosufficiente che trova coerenza e logica soltanto al suo interno, là dove tutto diventa possibile, lasciando immagini in dono agli spettatori che vi assistono, come gli odori e i suoni che permeano il ricordo di chi si siede sulle panche del circo. Solo all’interno di questo huis clos fantastico possono vivere e svilupparsi i personaggi burtoniani e può venirne a galla la veridicità, quell’umanità, gretta o schietta, che emerge tramite e malgrado il loro mascheramento.
Ogni film di Burton è una diversa Disneyland, la proposta di un nuovo e irripetibile viaggio che mal si accomoda nelle costrizioni del blockbuster o della ricetta obbligata. E il film, infatti, canzona così, al suo interno, il merchandising selvaggio degli elefantini con le orecchione o l’impianto stesso di un parco giochi a tema variabile ma dal percorso prestabilito e dalla finalità meramente economica, il regista facendosi quasi beffe del suo stesso datore di lavoro (Disney) fino ad incrinarne l’artificialità imposta. Perché soltanto l’artificio desiderato e personale ha valore e senso, sia esso la libertà della giungla o il ritorno alla limitata pista tonda sotto al piccolo tendone autogestito, comunque sinonimo di contentezza genuina e totale. Il resto è pericolosa e colpevole menzogna, aguzzina di ogni fantasticheria.
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