Regia di Clint Eastwood vedi scheda film
Del trittico “eroico” di Clint Eastwood iniziato con American Sniper (2014) e proseguito con Sully (2016), Attacco al treno è il più ideologico e propagandistico. Nel primo film la guerra, il militarismo, l’orgoglio militare, l’amore patrio e l’estasi della morte, incorniciano la spirale ossessiva che, inizialmente, spinge Chris Kyle ad estraniarsi dalla vita domestica e a ricercare in continuazione la tensione del conflitto, e che successivamente, per paradosso, lo porta alla morte per mano di un ex militare fisicamente menomato che il “cecchino più letale d’America” aveva scelto di aiutare – paradosso nel paradosso – attraverso l’addestramento militare. In Attacco al treno, invece, l’episodio eroico di cui sono protagonisti i tre giovani americani Alek Skarlatos, Spencer Stone e l’afro Anthony Sandler, gesto di assoluta grandezza e coraggio su cui è inutile discutere, occupa soltanto il breve spazio della sequenza finale per dedicare il resto del film all’“educazione” americana alla base di tale gesto eroico.
Bibbia e kalashnikov – e non si fa per dire. Il vecchio assunto statunitense, “in una mano la Bibbia e nell’altra la pistola”, torna in Attacco al treno inquietante e spiazzante. I due ragazzi bianchi, infatti, fin dalle medie vestono in mimetica, tengono nell’armadio della cameretta una catasta di armi finte e vere, giocano a softair e sognano l’esercito per vivere quei valori di cameratismo e unione solidale che può dare solo la guerra (Valori? Wtf?). Inoltre, la scuola cattolica che frequentano, benché refrattari alle regole interne dell’istituto come qualsiasi adolescente, resta comunque la base educativa del loro imprinting. Casa, chiesa e caserma. Inquietante.
Eppure quei tre ragazzi americani, nel mondo reale, hanno davvero disarmato un terrorista il 21 agosto del 2015 sul treno da Thalys a Parigi. Hanno davvero evitato una carneficina, tante erano le armi e i proiettili in dotazione al terrorista. Hanno davvero salvato la vita all’unico passeggero gravemente ferito. Insomma, hanno messo a rischio la loro stessa vita per lottare contro il male e favorire il bene comune, come ha sottolineato il Presidente francese dell’epoca François Hollande. Ecco quindi emergere all’orizzonte la prima riflessione: una storia, da un lato, inquietante per l’educazione catto-militare dei protagonisti che personalmente non ho mai accettato eticamente e mai accetterò, e dall’altro spiazzate perché quei ragazzi hanno davvero fatto qualcosa di umanamente incredibile. A questo primo sconcerto, segue una domanda curiosa: è necessaria proprio e soltanto questa educazione cattolica e militare, obbediente a dio e alla macchina bellica, per fare del bene? Al mondo esistono pacifisti e obiettori di coscienza che pur non imbracciando armi e senza appartenere a nessun corpo militare, vivono, lavorano e a volte muoiono, in territori di guerra pur di aiutare i civili, curarli, sfamarli, proteggerli.
Al netto dell’ideologia trumpista di fondo a cui nemmeno gli attori si sottraggono nel privato, il film è pedante, sciatto stilisticamente e per nulla incisivo nel tratteggio delle vite umane a cui Eastwood ci aveva sempre abituato. I loro dialoghi e le immagini che ce li raccontano sono posticci e stucchevoli brani di film a cui non eravamo abituati e che non appartengono al Clint Eastwood che conosciamo e amiamo. Così come la parte centrale del film dedicata alla vacanza europea è un’imbarazzante giro a vuoto, senza narrazione, una sequenza tediosa e distratta oltre che stereotipata. Il sospetto che non ci sia neppure Eastwood alla regia è forte. Tant’è che il tocco magico del regista possiamo notarlo solo nei pochi minuti conclusivi, quelli strettamente dedicati all’attacco terroristico. Montaggio efficace e dosato, immagini pulite e narrativamente chiare, epica dell’azione lineare che risponde alla sua linearità di pensiero, al pragmatismo di un uomo d’altri tempi. Latita solo l’umanesimo con cui aveva tessuto le sue storie e la pietas dei personaggi degli ultimi trent’anni di carriera. Anche il voice over finale con cui uno dei tre ragazzi prega, per l’ennesima volta, in uno slancio di integralismo cattolico – vedi allo voce dicotomie inconciliabili – è francamente uno scivolone stilistico che non appartiene al regista di Mystic River (2003), Million Dollar Baby (2004), Gran Torino (2008) e capolavori precedenti.
Va detto, a suo favore, che il film non inasprisce la guerra ideologica tra mondo cristiano e mondo mussulmano. Non ci sono dirette figurazioni dello stereotipo talebano. Il terrorista è un europeo qualunque, di origine araba, certo, ma che veste occidentale e viaggia con tanto di trolli. Non si odono preghiere islamiche, non c’è nessun riferimento ad Allah e nessun tratteggio animalesco per demonizzare il nemico. È però insistente la matrice cattolica e militarista che ha forgiato le vite dei tre giovani americani. Un’insistenza insostenibile che stride con l’umanesimo eastwoodiano conosciuto fino ad ora. Film alimentare? Film obbligato per chiudere una trilogia che già partiva stanca?
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