Regia di Rose Troche vedi scheda film
Brillante e autenticamente anticonformista, supportato da buone intuizioni di scrittura e da uno stile giovane e metropolitano, Go fish è un piccolo cult indie che ha mantenuto nel tempo intatta tutta la sua freschezza.
Chissà se qualcuno ricorda questa deliziosa pellicola nata come saggio di fine corso di cinematografia e giunta in concorso fino al Sundance del 1994, edizione in cui vinse Clerks di Kevin Smith (ottima annata). Si tratta dell’esordio di Rose Troche dietro la macchina da presa, un progetto brillante e autenticamente anticonformista, supportato da buone intuizioni di scrittura e da uno stile giovane e metropolitano, che è diventato un piccolo cult di genere mantenendo nel tempo intatta tutta la sua effervescenza.
“I’m a single lesbo, looking for looooove” così la giovane Max (Guinevere Turner che ha collaborato alla sceneggiatura) dice di se’ stessa mentre si confida con l’amica Kia e in un attimo, senza preamboli né introduzioni cautelative per non addetti ai lavori, veniamo catapultati nel mondo anticonvenzionale e allo stesso tempo normalissimo di un gruppo di ragazze di Chicago che condividono quel lato della loro personalità. E’ un punto di vista completamente interno all’ambiente omosessuale femminile quello che assumiamo saltando dentro a quest’opera prima, che sentiamo sinceramente partecipata così come può esserlo un lavoro collettivo nato da esperienza di vita reale che non ha subito mediazioni a favore degli osservatori esterni, né in alcun modo è stato manipolato o addomesticato ad uso di spettatori a digiuno di tematiche omosessuali. Eppure Go fish è un film eccezionalmente accessibile e empatico, perchè è un po’ di loro stesse e delle loro giornate reali che Rose Troche, Guinevere Turner e le ragazze che hanno recitato nel film trasferiscono sullo schermo e lo fanno con un’energia e una vitalità che ancora oggi potrebbero essere prese d’esempio.
Con tale schiettezza di approccio non era necessario che la storia fosse complessa e infatti non lo è, era invece fondamentale che le singole personalità delle ragazze emergessero ben delineate per evitare stereotipi e semplificazioni: insieme alla graziosa Max conosciamo Kia, insegnante che tiene incontri di autocoscienza lesbica, la sua fidanzata Evy che lavora come infermiera e non ha ancora parlato in famiglia della sua vita privata, la timida Ely che sconta l’essere poco appariscente e più matura delle altre e infine Daria, l’indomita conquistatrice dalla fiera postura da cowboy che ad ogni incontro di gruppo si presenta con una fidanzata nuova. Max sogna l'amore e Ely forse l'ha perso, le loro amiche decidono di dare una mano al destino.
La presa di posizione di Go fish rispetto all’omosessualità non ha nulla di rivendicativo ma nemmeno di subalterno: non ci sono amori impossibili o osteggiati dalla società per cui gli spettatori eterosessuali possano correre a dispiacersi, anzi, diciamo pure che degli spettatori eterosessuali nessuno si è preoccupato in fase di scrittura e proprio questa allegra noncuranza è il miglior biglietto da visita per un film in cui si parla liberamente d’amore e di sesso, in modo scanzonato ma interessante e condivisibile, perchè quello che viene messo subito in chiaro è che il problema non è l’omosessualità bensì – e universalmente - trovare l’anima gemella.
Fu così che la creatività very low budget di metà anni ’90 scavalcò a pie' pari le usuali, vetuste misure di precauzione con cui ancora oggi l’arretrato mainstream si tutela quando prova ad avventurarsi in territori sentimentali fuori standard e cioè: personaggi gay sempre interpretati da attori etero, storie d’amore per lo più infelici o osteggiate, punto di vista che, per quanto rispettoso e comprensivo, rimane comunque esterno e a distanza di sicurezza, messaggio implicito di richiesta di accettazione e quindi - di fatto - disparità di forza contrattuale rispetto al mondo etero.
Come si diceva l’idea del lungometraggio nacque come prova finale della scuola di cinema e come tale va riconosciuta al film anche una buona padronanza stilistica, che interviene efficacemente sulla sostanziale linearità della vicenda: un bianco e nero montato in modo secco e nervoso, un po’ raccontato in voice over come fosse un diario e un po’ chiacchierato a più voci, inserti fantasiosi e divagazioni per immagini innervate da un tono autoironico che non può non conquistare (vedi ad esempio la discussione sulla tipicità del look dyke o la scena in cui Daria, che facendo strage di cuori trasversalmente finisce per giacere anche con un uomo, viene processata dalle amiche per alto tradimento).
Una pellicola da conservare, che nel 1994 venne coraggiosamente distribuita in (poche) sale di prima visione e doppiata in italiano (ora la si può trovare su youtube in l.o.), chissà se oggi avrebbe la stessa opportunità.
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